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Da tempo immemore l’essere umano ha lottato contro il dolore: un dolore che è spirituale, dell’anima, innestato nella conoscenza e nella sperimentazione quotidiana della paura, della

Da tempo immemore l’essere umano ha lottato contro il dolore: un dolore che è spirituale, dell’anima, innestato nella conoscenza e nella sperimentazione quotidiana della paura, della solitudine, dell’essenza stessa del male di vivere. Contro questo dolore una delle condizioni per rintuzzarlo, per annientarlo, è quella di percorrere la strada della creazione, di una ricerca estetica che può annullare il dolore annullando il tempo, azzerando la consapevolezza di quella paura di vivere. Eppure sappiamo che lo stato doloroso ha dentro di sé un potere generante, una possibilità data all’uomo di possedere ciò che sembra perduto per sempre, di comprendere la vita in quelle sue curve più basse, in cui il dolore ci dà esperienza, ci fornisce la chiave per capire anche l’amore, sentimento difficile... Un amore che non è solo attrazione o sentimento o senso o ideale, ma qualcosa che – già sperimentato (memoria ancestrale effimera) – ci attrae, a cui si anela e che spesso si presenta sfumato, inconosciuto, avvolto in una nebbia indistinta, ma presago di una essenzialità per l’uomo, che è necessaria, perché è simile a una pienezza, a una saturazione calma e felice. Ma proprio perché è assente, lontano, memoria ancestrale, difficilmente avvistabile, così immerso com’è in un Altrove quasi mitico, la sua possibile visibilità passa attraverso l’atto poetico, estetico, certo, o anche attraverso la parola poetica. In questa direzione – scegliendo «fior da fiore», tra i tanti libri – richiamiamo l’attenzione su quei temi che ci hanno fatto vivere questa esperienza, non certo illusoria, tra le pagine recenti. «Amiamo solo ciò che non ha nome,(che, vago segno, tormenta col mistero:/voli di gru, nella natura una serie di presagi/di quanto l’ignoto insegna a vedere». Così Nikolaj Kljuev in Il bianco delle margherite; edito da S. Marco dei Giustiniani di Genova. Un poeta che per la prima volta esce in Italia ed è stato il maestro di Esenin. «In mezzo alla maceria descrittiva/continuiamo a descrivere: una certezza l’abbiamo/qui intorno, la realtà, non sostanziale,/allude ad Altro». È un verso di Anna Rosa Panaccione, tratto da L’arsi e la tesi, edito da Polistampa, Firenze. La Panaccione è da tanti anni che rivaluta un poesia d’invenzione, tesa a ri-scrivere una realtà dentro cui l’«io» non è più narciso ma punto focale di una riflessione continua sul mondo. Ne La ferita e l’estasi (Poesie per Teresa di Lisieux) Ed. Feeria, di Maria Pia Salerno, troviamo questo testo chiarissimo: «Luce sempliterna/non è del cuore che s’offusca/e troppo presto muore/ma di là dagli argentei/valichi del cielo, chi può dire/quali pascoli s’aprano/al timoroso gregge?».
Data recensione: 16/09/1999
Testata Giornalistica: Gazzetta del Sud
Autore: Giancarlo Pandini