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Confrontando Repertorio d’infinito alle precedenti raccolte poetiche di Giovanna Fozzer, balza subito agli occhi il fatto che la versificazione dell’autrice si è fatta più essenziale nei passaggi più gnomici e astratti, e

Confrontando Repertorio d’infinito alle precedenti raccolte poetiche di Giovanna Fozzer, balza subito agli occhi il fatto che la versificazione dell’autrice si è fatta più essenziale nei passaggi più gnomici e astratti, e contemporaneamente più sensuosa e vitale in quelli descrittivi. L’impressione sintetica, d’insieme, è quella di una capacità di oscillare tra visibile e invisibile, tipica della sua poetica e della sua formazione, che ha raggiunto una essenzialità espressiva notevolissima. Dal punto di vista linguistico sono aumentati i termini realistici e dissonanti, forse per le esigenze della mimesi con gli oggetti, che si fa sempre più fine e meticolosa. Il termine repertorio presente nel titolo è una metafora dei frammenti lirici che compongono la raccolta: in maniera ironica, questi si fanno metonimie della totalità che diventa l’orizzonte semantico del dire di Giovanna Fozzer. Il titolo della prima sezione, Particolari e cortometraggi, sembra un prolungamento della metafora generale espressa attraverso il termine repertorio. È una galleria di frammenti di realtà che si fanno allegoria dell’esistenza umana, anche quando apparentemente si riferiscono alla natura extraumana, com’è nelle corde della scrittrice. Quadretti vivacissimi e amorosi di realtà che, come la ginestra leopardiana, allegorizzano la resistenza della volontà di persistere sul nulla e sul deserto che costantemente inghiotte l’esistenza. La vite, sradicata, crocifissa, abbandonata, e tuttavia simbolo di eternità di pervicacia dell’essere; o il piccolo e fugace arabesco sonoro dell’uccello che allude a una Gioia presente/assente, che tuttavia vale la pena di cercare. E di nuovo la metafora vegetale e ancora religiosa dell’olivo, che sembra morto e in realtà attraversa invitto i secoli e le intemperie. Meravigliosa la metafora della piuma: esprime molto bene il senso – indefettibile in Giovanna Fozzer – della ignota sensatezza (provvidenziale) del tutto. Quella piuma diafana del destino individuale si staglia solitaria, impotente e importante su uno sfondo metafisico di luce e di senso. Il Cantico di Daniele scopre le carte della sua visione generale del mondo, in forma quasi compendiaria: i frammenti del creato, dai più insignificanti su su fino al riso estatico (dantesco) dell’uomo e dell’angelo, rimandano ad Altro. Sono le parole sparse di quel Logos creatore che parlando ha creato il cielo e la terra, e che ora riverberano la loro lode e la loro volontà del Bene attraverso lo specchio della mente poetica e della humilitas evangelica. Tutto si compone nella pace che, come scrive Sant’Agostino, è la struttura più intima del creato, proprio in quanto creatura che ha come fine il Bene, il Sabato della pace eterna: che Fozzer lo colga in un’umile natura morta è straordinario e insieme perfettamente formale alla poetica della humilitas. Anche il mimetismo animale si fa metafora di questo supremo equilibrio dell’essere, anche se passa attraverso momenti di innocente crudeltà. Si esprime qui una sensibilità lontana dalla visione della natura del giovane Leopardi: il male naturale sembra sublimato e ricompreso in una totalità positiva perché di origine divina. Nei ritratti di paesaggio l’autrice condensa nel repertorio della totalità i suoi luoghi paradigmatici e significativi. La Calabria innanzitutto, sulla quale stende un velo di pietas e di tenerezza: è significativo che abbia scelto proprio una terra così nobile – e nello stesso tempo così abbandonata dalla buona sorte – per esprimere quel sentimento accorato di volontà di conservare nell’eternità del ricordo le immagini della vita. Difficilmente un paesaggio storicamente più fortunato avrebbe manifestato quella caducità che suscita il sentimento protettivo della pietas. La natura, mediata nella cornice della storia (i germogli dei bagolari schiusi a Santo Spirito), manifesta in modo ammiccante la propria irriducibilità al senso utilitaristico impostogli dall’uomo: diventando muta messaggera della totalità misteriosa nella quale siamo immersi. Anche se ciò non è detto esplicitamente, si avverte tuttavia lo stesso la presenza dell’intelligenza poetica che coglie il silenzio, l’apparente indifferenza e l’ammiccamento di quelle minime forme naturali. Al Casone svela infine, in breve squarcio di metapoesia,  il motore primario della conoscenza poetica: l’amore, che non si sovrappone al suo oggetto distorcendolo, ma lo accoglie e lo valorizza per ciò che effettivamente è nello specchio della mente e del cuore. Più autunnale, malinconico e nordico, anche se ritrae il meridione, si fa il dettato in Note di viaggio. Dopo lo scintillio della luce mediterranea, che estroflette lo spirito sulla superficie cromatica delle cose, ora le immagini di fuori sembrano riflesse in un’intimità malinconica, nordica appunto, come quella che si condensa in Febbraio a Ponte Vecchio.Stupendo neologismo invernalità, che condensa quanto appena detto. Il paesaggio invernale, ritratto in sé e come morente, rende più evidente il senso transitorio delle immagini di questo mondo, il loro costante rinviare a un’altra dimensione. (Si pensi a certa musica nordica, quella del norvegese Ketil Bjornstad, che evoca veramente passaggi luminosi e porte misteriose verso l’Altrove, in un paesaggio di mare grigio, calvo, deserto e di fiordi invernali). Del resto, non c’è mai in questa poesia uno stacco reciso fra i paesaggi invernali e quelli mediterranei, nei quali l’arsura, come Fozzer scrive in Pratomagno, diventa il correlativo oggettivo della stessa malinconia che nei paesaggi invernali assume altri aspetti, compie altre metamorfosi. Costantemente la natura oscilla per lei fra l’essere se stessa e il significare altro. Dall’alta terrazza è una conferma di questo fatto: le immagini sensibili si fondono con la memoria e con le elaborazioni della contemplazione, dando vita a una totalità di significato nuova, che non stava solo nelle cose né soltanto nello spirito. L’immagine della tomba, dell’assenza suprema, cioè, fissa insieme il massimo possesso di questa realtà poetica osmotica, impregnata di interiorità e di esteriorità. Per Dante la vita individuale acquista tutto intero il suo senso solo dalla prospettiva della morte e anche le immagini della natura, nella poesia, hanno un destino analogo. Nei versi della poesia eponima, l’invernalità fa da sfondo semantico, in apertura e in clausola, all’andamento enumerativo dei versi, che esibiscono frammenti di realtà totale rigurgitati dall’infinito del mare: è uno di quei momenti compendiari che sintetizzano l’idea-forza del libro nei suoi momenti salienti. L’ultima sezione, Colloqui e soliloqui,  introduce quella struttura metapoetica di tipo dialogico (che resta tale anche nei soliloquia) di cui parla Giuntini in prefazione. È una rappresentazione esplicita della mimesi poetica, sorretta dall’amor come motore vitale. Rappresenta il paradosso della mimesi poetica, che per una parte aderisce in modo corporeo agli oggetti amati, per l’altra e più significativa li trasfigura nel distacco introspettivo e nel ricordo (Osmosi). L’aderenza della scrittura agli oggetti si fa quasi tridimensionale in Sperlonga, dove l’onomatopea e il lessico architettonico (scapitozzate) danno un rilievo fisico al dettato. Si nota ovunque un’ansia di appropriazione nella parola poetica di piccole realtà significative, dalla palla in superficie al piccolo scarabeo nero, che vorrebbe essere anche fissazione di forme inquiete. E del resto Creaturale è quasi un manifesto poetico di questo amor mimetico e contiene anche un lucido quadro metafisico sulla concezione di ordine cosmico propria della poetessa. Probabilmente non si tratta di una religione della memoria poetica, la poetica della Fozzer non è animata dalla convinzione che la poesia possa eternare le cose amate. Lo dimostrano i versi malinconici dell’ultima sezione: Glicine che solo inizialmente evoca la capacità evocativa degli oggetti, per poi limitarne drasticamente la portata nella clausola rossi non più per te; e soprattutto Intus habeo, dove sono rappresentate le forze oscure dell’oblio e della caducità.L’impressione generale che si ricava dall’alternarsi, in questa raccolta, di quadri nitidi, quasi materici e vitali, esplosioni cromatiche da una parte, e versi nudi, astratti, negativi, è che questi ultimi retroagiscano sui primi conferendogli il senso autentico: quello di un’esaltazione della vita alla luce della consapevolezza del suo carattere creaturale. Infatti Cotanta speme, a parte l’ovvio richiamo leopardiano, evoca le atmosfere mistiche speculative che sono così formali alla sensibilità di Giovanna Fozzer ed evocano forme aldilà del sensibile, nella pura intuizione intellettuale-trascendente. Lei stessa si chiede se alla sua scrittura poetica manchi la corporeità, contemplando Lorenzetti a Siena. Non manca alcuna corporeità, semmai manca una fissazione dell’immagine sensibile all’esterno. Gli oggetti dell’esperienza divengono signa, che necessariamente rinviano ad Altro. E del resto, anche l’occhio della Pace del Lorenzetti mira ad altro. Non vi sarebbe arte spiritualizzata se il significante non gettasse ombra. In Repertorio d’infinito Giovanna Fozzer ha raggiunto un punto di equilibrio e di pienezza espressiva assai alto, all’interno di una ricerca poetica da anni coerente e appassionata. È un libro bello e denso, pieno di frutti poetici necessari ed essenziali: ogni parola giunge al momento giusto. 
Data recensione: 19/09/2008
Testata Giornalistica: Punto di Vista
Autore: Giovanni Falsetti