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La più recente opera poetica di Francesco Giuntini, Il senso della misura (edizioni Polistampa 2006), conferma il talento o genio poetico dell’autore. Opera tanto profonda quanto enigmatica, che bisogna tuffarsi in profondità

La più recente opera poetica di Francesco Giuntini, Il senso della misura (edizioni Polistampa 2006), conferma il talento o genio poetico dell’autore. Opera tanto profonda quanto enigmatica, che bisogna tuffarsi in profondità per comprenderla, e non una sola volta; si seguono fili infiniti per dipanarne il senso: tante, e pregnanti sono le parole-chiave, i nodi tessuti dall’autore, che come sempre, non raccoglie poesie, scritte nel tempo, ma le dispone in un disegno-struttura, frutto di una meditazione lucida e attenta: un cono d’infinito, al cui vertice in basso c’è lo sguardo[1][1] [2] .            Compiuto il periplo dell’opera, dopo una  prima lettura, nuotando al largo e approdando per pure suggestioni su altre isole-opere (Dante, Leopardi, Pascal, Lucrezio, atlanti astronomici), l’immersione in profondità è quanto mai necessaria, in quanto il libro in sé si presenta come un unicum, nel panorama letterario italiano.            Seguendo, poi, una traiettoria ascensionale dal buio alla luce, dal mondo sublunare alla città delle stelle,  al labirinto del creato, lo sguardo si sposta dalla materia primordiale, gli elementi sensibili della prima parte (fuoco, acqua, aria e terra) alle terre emerse della seconda parte, alle sfere celesti della terza parte del libro. Il libro ha infatti una struttura tripartita: 1. Degli elementi sensibili 2. Dalle terre emerse 3. Per le sfere celesti[2]. Sotto un profilo strettamente letterale si presenta strutturato come una cosmogonia in versi, un viaggio intellettivo e interstellare che ha inizio, quasi con procedimento cinematografico, con un movimento della macchina da presa, dall’immagine della fiammella del cero che le dita del bambino attraversano nella poesia iniziale, Il fuoco, fino ad arrivare alla materia ignea delle stelle, distanti da noi anni luce nell’infinitamente grande dell’universo.  Le dita del bambino, che attraversanola fiammella del cero,si salveranno o no, rimane intattala memoria del fuoco e non è certoche rinnovi il perdono. Forma e sostanza, sfida per i sensila misura del fuoco, il farsi vanala durezza del calcolo. Flutti e ceneri, spazi ed atmosfere,la crosta della terra. Che confinealtro che l’indicibile, che luoghiper soffermarsi, stringere una tregua. Le fiammelle dei ceri, che attraversanole dita dei bambini,si salveranno o no, rimane intattala memoria dei piccoli e resisteanche al di là dell’ora del perdono. Da questo primo componimento si dipanano i motivi fondamentali e unificanti del libro: la memoria (rimane intatta/ la memoria del fuoco (vv. 3-4), rimane intatta/ la memoria dei piccoli (vv. 15-16); il fuoco (la fiammella del cero (v. 2), la memoria del fuoco (v. 4), sfida per i sensi / la misura del fuoco (vv. 6-7);  lo spazio (Che confine/ altro che l’indicibile, che luoghi/ per soffermarsi, stringere una tregua (vv. 10-12).             Con il prevalere dello spazio siderale cresce la distanza. “Sul tema della distanza sto lavorando, – scrive l’autore nel gennaio 2003 -  o forse annaspando, facile annegare, perdersi: inseguire la cifra un gioco d’azzardo”[3]. Ed è proprio la distanza – così mi sembra – a dare  alla struttura poematica una disposizione ascensionale dal vicino (la fiammella del cero, che si può vedere e toccare con i sensi, così come gli altri elementi sensibili della prima sezione) al distante anni luce come i pianeti, i satelliti, le galassie, le costellazioni delle sfere celesti della terza sezione, non è un caso che l’ultimo sonetto dell’opera sia intitolato Anni luce[4]. La distanza fisica dei corpi celesti si carica di un ulteriore significato nella terna di sonetti dedicati alla Madre, nella seconda sezione del libro: Io ti vengo a cercare [...] Io ti vengo a salvare, tu non credi/ sia possibile, vedi più lontano/ di me, quando rivolgi nel grigiore// quell’iride che so, quando rinunci a/ chiamarmi, a dirmi quanto la distanza/ possa rendere vano seguitare (p. 31). Qui, la distanza è lo spazio che nessuna legge fisica può calcolare, il muro della terra, che separa i vivi dai morti, che nemmeno la corrispondenza d’amorosi sensi riesce a scalfire. Neppure la legge della gravità, che pure spiega la distanza tra gli astri, può spiegare la vicenda del distacco: tensione o gravità, massa od attrito/ spiegano oppure no la singolare/ vicenda del distacco, la frattura[5]. Sulla distanza come condizione esistenziale s’interroga Mésarthim, la stella della costellazione dell’Ariete:  Esistere distanti, il vuoto e il fuocoricolmano lo spazio e così piccolaparte sembra rimasta alla materiae fredda e opaca. Stretto è l’intervallo dato per sopravvivere e per quantoprestato alla materia. Il vuoto e il fuococolmeranno altro spazio e così piccolaparte potrà serbare la memoria  se pur trovasse un dove. Anche quel pocoche resta, che trattengono le mani della materia, perderebbe il nome. E prosegue il suo cerchio la memoria,si fa strada nel vuoto. Che significaesistere distanti, a quale scopo[6].  La domanda che chiude il sonetto (Che significa/ esistere distanti, a quale scopo) cade nel vuoto come una domanda retorica.             Vuoto e fuoco si contendono lo spazio infinito dell’universo, in cui la materia occupa una piccolissima parte (Il vuoto e il fuoco/ ricolmano lo spazio e così piccola/ parte sembra rimasta alla materia). Non stupisce pertanto se nella polifonia di voci e temi che affollano Il senso della misura un ruolo di primo piano, oltre che di esordio, spetti al  fuoco[7], il divino elemento di cui si ritenevano formati gli astri del cielo, elargito agli uomini da Prometeo, col quale gli uomini soggiogarono la natura dando inizio al progresso. In Eraclito, il fuoco era l’essenza stessa del mondo, oltre che l’anima e il logos, il corrispettivo del concetto moderno di energia: “Quest’ordine del mondo, che è lo stesso per tutti, non lo fece né uno degli dèi né uno degli uomini, ma è sempre stato e sarà fuoco vivo in eterno, che in misura dovuta si accende e al tempo dovuto si spegne” (D-K 22 B 94). In Giuntini il fuoco coagula una moltitudine di significati (E’ sempre notte fonda tra le luci/ sparse di questa mia città di stelle,/ notte profonda e sempre veglia il fuoco[8]), a partire dal concetto eracliteo di energia che sopravvive alla materia (passa e si consuma/ lentissimo ogni lembo di materia/ gli sopravvive all’infinito il fuoco[9]). Il sacro fuoco conserva inoltre la memoria dell’origine urania, prima che terrena, dell’uomo, nato dalle ceneri dei Titani, e il fuoco che lo abita è simbolo di passione e ragione (Trattengo,/ come il fuoco sepolto nel mio seno,// la mia storia con te, che d’improvviso/ adesso ti nascondi. Vedo fiamme/ sul perimetro nero del tuo cuore[10]). Il fuoco, con il suo accendersi e spegnersi, è poi l’equivalente  dell’esistenza transeunte dell’uomo come dell’accendersi e svanire di una stella (Un brivido nel cielo, ad ogni nuovo/ cuore di stella che si spegne. Pesa/ meno di nulla un segno in mezzo a tanti,/ pesa meno un destino. Eppure guardo// quel segno che non c’è, quel punto scuro/ come parte di me persa in un dove/ che non conosco: Guardo e non ritrovo/ il senso dell’accendersi e svanire[11]). Nel grande libro dell’universo esso è poi segno e cifra del destino: L’osservarsi a vicenda, l’incessantemisurare distanze e traiettorie,consegna oppure no qualche messaggioattraverso le tenebre, ricolma o no la rete immobile dei segnidi quale vita, o che significatoda poter essere letto. Lunga stradaper dire nulla al nulla, che destino avrebbe di noi l’ardere, il tracciaresparse cifre di noi. Di rado avverto uno sguardo di Dio fissarmi, fino a decifrare il senso della luce,rassegnata obbedienza all’entropia,vana gloria di sé, grido, preghiera[12].            Difficile, però, leggere, decifrare le sparse cifre delle stelle, il senso della luce. Siamo distanti anni luce dall’universo finalisticamente inteso (lunga strada/ per dire nulla al nulla), raramente si avverte lo sguardo di Dio, quando non si volge altrove (A quale limite,/ domando, possa giungere la notte,/ mentre l’occhio di Dio si volge altrove)[13].            Nella precedente trilogia, La fabbrica del tempo, prevaleva, con la categoria del tempo, il linguaggio del mito e del quotidiano, qui, con la dimensione dello spazio, prevale il linguaggio della fisica e dell’astronomia. A parole astratte e vaghe vengono preferite parole esatte e concrete della scienza moderna come: entropia, materia, massa, vuoto, anni luce, molecole, attrito, etc. Troviamo poi i nomi propri di stelle, pianeti, galassie, nebulose. All’esattezza[14] e precisione del lessico [15] - quasi un modo per dare forma e misura, porre un limite all’incommensurabile dell’universo - fa da controcanto  l’incertezza della meditazione, che si esprime mediante l’iterazione dei verbi del chiedere, e da una fitta rete, a livello sintattico[16], di proposizioni interrogative, mimetizzate quasi sempre dall’assenza di interpunzione, come dall’assenza di risposte: ciò è evidente già a partire dalla quartina posta in apertura dell’opera, quasi un exergo, o voce fuori campo: Di che discorre il segno della luna/ coi numeri del tempo e quale cifra/ per ricambiare auguri ed almanacchi/ del possibile ed oltre, stare al gioco... La diffidenza nei confronti del pensiero sistematico della poesia-dialogo[17] è sottolineata in maniera evidente da uno stile dilemmatico proprio del dubbio[18] filosofico ed esistenziale della materia cogitante che si tormenta nel dialogo col vuoto.[19]  Abbondano pertanto le congiunzioni disgiuntive:”o”, “oppure”, e l’avverbio dubitativo “forse”: Sento una voce nitida arrivare/ da una regione nera dello spazio,/ come labbra invisibili. Misuro/ coordinate di origine e distanza// di stella che non c’è, di massa opaca/ che si regge su calcoli, sostiene/ se stessa su catene di equazioni./ Comprendo oppure no, se questa voce// che ha perduto l’immagine conferma/ ipotesi e teorie[20].L’universo dei sogni, inaccessibile/ alle misure della nostra fede,/ raccoglie oppure no, dentro il mio fato,// la parola taciuta[21].             La massa fluida del pensiero poetante è contenuta negli argini della forma chiusa del sonetto[22], ma il poeta ne fa una forma duttile e aperta, grazie all’endecasillabo sciolto[23]  e agli innumerevoli enjambement per cui versi e strofe s’inarcano al di là della misura prestabilita assecondando le raffiche di esplosioni del pensiero/ multicolore, a pioggia, a campanile[24], come Leopardi con la canzone libera.            Per gettare ancora un ponte con la precedente trilogia si nota in maniera lampante, a un primo livello di lettura, l’assenza esplicita del mito; laddove ne La fabbrica del tempo le prime due sezioni di Lancette erano dedicate a due personaggi femminili del mito Penelope e Didone, le due eroine legate ai due eroi viaggiatori per eccellenza, Odisseo ed Enea, da una vicenda amorosa travagliata dalla “distanza” del viaggio da compiersi, nel caso di Enea, e del viaggio del ritorno, nel caso di Odisseo. Ma mentre Penelope trova un senso all’esistere distanti, facendo e disfacendo  la sua tela; l’altra, Didone, non trovandolo, in preda al furor amoroso, vittima di un sentimento che non conosce il senso della misura, si uccide. E qui un filo sottilissimo, quasi invisibile, sembra anticipare e riannodare le due opere. A leggere più in profondità quest’ultima opera di Giuntini, si nota che qui il mito più che assente è presente sotto forma di allusione. Piano letterale e mitico, fisico e metafisico si annodano illuminandosi e oscurandosi a vicenda.Si legga a titolo esemplificativo il sonetto Ganimede: Un banchetto di Dei decise i fati emi rese prigioniero. L’incompiutacena che vide adagio scomparirela giovinezza e il riso, quale mano, che volere fermò, quale catenaancora mi trattiene, attorno a questo pianeta freddo e muto. L’acqua e il vino,il nettare e l’ambrosia ed altro ancora promesso, nel silenzio si tramutano,nell’enigma del ghiaccio. Chi rimane preso nel gioco della gravità conosce il suo destino, ignora se più pesila forza delle masse oppure il nodo,come un’ombra di sé, della memoria[25].  A un livello letterale Ganimede è il settimo satellite di Giove, a cui rimandano i versi 5-7 (quale catena/ ancora mi trattiene, attorno a questo/ pianeta freddo e muto). L’allusione al mito di Ganimede è presente nella prima quartina:  Ganimede, figlio di Troo, fondatore di Troia, fu rapito dagli dèi (Un banchetto di Dei decise i fati e/ mi rese prigioniero), per la sua bellezza e giovinezza (L’incompiuta/ cena che vide adagio scomparire/ la giovinezza e il riso), perché fosse coppiere di Zeus/Giove (L’acqua e il vino,/ il nettare e l’ambrosia ed altro ancora// promesso, nel silenzio si tramutano,/ nell’enigma del ghiaccio). Gli umanisti del Rinascimento videro nell’ascesa di Ganimede un’allegoria dell’itinerario dell’uomo a Dio, al divino e all’immortalità. In Giuntini la vicenda di Ganimede, a livello letterale (satellite di Giove) e a livello mitico (coppiere degli dèi) è emblematica di un itinerario umano, confinato però nell’ambito dell’amore profano, come risulta nella chiusa sentenziosa del sonetto (Chi rimane/ preso nel gioco della gravità conosce// il suo destino, ignora se più pesi/ la forza delle masse oppure il nodo,/ come un’ombra di sé, della memoria). Il  gioco della gravità in cui si resta presi sottintende la forza dell’amore che regola la distanza nelle relazioni amorose, come la forza di gravità regola la distanza tra satellite e pianeta, ignorando se nel gioco di relazione pesi più la forza (di attrazione) delle masse, come nell’amore da vicino o la memoria, come nell’amore da lontano. E’ da notare che la parola amore compare una  volta  nella seconda quartina del sonetto Relazioni di logiche (relazioni di logiche e d’amore,/ fili sottili, avvolgimenti, nodi/ mille modi del tempo che ti prende/ la mano, ti conduce via, ti accieca),  e una seconda volta con la lettera maiuscola nel sonetto intitolato Giove - di cui Ganimede è appunto il satellite - l’unico che rechi come epigrafe due versi di Guido Cavalcanti (dimmi se ricordare / di quegli occhi ti puoi), tratti dalla ballata Era in penser d’amor quand’ i trovai, in cui il poeta indulge al ricordo (fatto raro in Cavalcanti) della propria vicenda d’amore, in un colloquio cortese con due contadinelle, le ”foresette”, confidando loro come il suo cuore sia stato dolorosamente colpito a morte da una giovane di Tolosa: Ogni pianeta guarda le sue lune come la prima volta, ne soffondedi una presenza immemore il pallore,se di nuovo s’interroga, che nodo abbia fermato il senso, e quale sensos’incarceri nell’ansa di quel nodoche l’una e l’altra sorte a una distanzamantiene, a una promessa di Amore. Ogni pianeta torna a chiederecifre che le sue lune non diranno,a interrogarne il volto, quel tessuto d’ombre cangianti e flebili chiarori.La risposta taciuta è sempre ugualee non è mai la stessa[26].  I versi 4-9 (che nodo/ abbia fermato il senso, e quale senso/ s’incarceri nell’ansa di quel nodo/ che l’una e l’altra sorte a una distanza/ mantiene, a una promessa// di Amore) chiariscono la natura del legame amoroso. Le dramatis personae del dramma amoroso, il pianeta e la sua luna, sono vincolate dalla forza magnetica dell’amor de lohn, che avviene, come nella migliore tradizione stilnovistica, di cui Guido Cavalcanti è esponente, attraverso lo sguardo e la contemplazione. Chi è preso nel gioco della gravità che costringe a esistere e amare da lontano sa quale peso abbia la memoria, facendosi strada nel vuoto. E la memoria è vero Leit-motiv del libro, come si evince dalla repetitio del vocabolo con le sue 55 occorrenze. Si potrebbe parlare a proposito del tema amoroso di tema nascosto o sotteso, già a partire dall’elemento primordiale del fuoco, che fa la sua comparsa fin dal primo componimento dell’opera, oggettivazione simbolica della passione amorosa che arde cuori e destini.Se è vero, infine, che è il senso della misura a permettere all’uomo di calcolare distanze, risolvere equazioni, rendendo finito uno spazio infinito, e a determinare, talvolta, il diverso esito felice/infelice della vicenda amorosa, come nel caso paradigmatico di Penelope e Didone, è pur vero che la misura del fuoco, la sua forma e sostanza resta una sfida per i sensi, come recita la prima poesia Il fuoco, più volte citata. Come spiegare infatti le “ragioni del cuore”? In un universo in cui anche lo sguardo di Dio si volge altrove?Nella terza sezione del libro, in cui l’uomo è per lo più assente, la vicenda umana di passione e ragione è metaforicamente specchiata nel grande libro dell’universo, universo di sogni e di segni, che spiega e non spiega il senso di esistere-amare distanti, ma che forse può spiegare la solitudine dell’uomo nell’universo, “Che cos’è un uomo nell’infinito?”[27] Luoghi non luoghi, nubi di galassiee spazio caldo attorno, esteso a perditadi che smarrito sguardo. C’è un confinedell’oltre oppure no, non si dà tregua.Logos che tace, pago di se stesso,entro o al di là di questo spazio caldo,di sopra ad ogni dove, inaccessibileai sensi, al volo cieco del pensiero. Al dilatarsi estremo dei confinil’uomo è sempre più piccolo, che pesoavrà la sua vicenda, in quale oblio lo assorbirà con minima faticalo spazio prossimo. Non si afferra Logos,l’uomo è sempre più piccolo, indifeso[28].
[1]    Ricorre con frequenza nei testi poetici sia il sostantivo “sguardo” (33 volte) che il verbo “guardare” (15 volte).[2]    La prima sezione è composta di soli quattro componimenti, così come quattro sono gli elementi sensibili, considerati parti o membra dell’universo nella filosofia antica: Il fuoco; L’acqua; L’aria; La terra; la seconda sezione è composta di 35 componimenti e la terza di 55. La tripartizione è sottolineata poi da tre componimenti (disposti all’inizio del libro, all’inizio e alla fine dell’ultima sezione) senza titolo, corsivati e separati, come voce fuori campo, dagli altri componimenti da una pagina bianca: Di che discorre..., Ora il tuo nome..., Si fa strada... (quartina, distico, sonetto). In tutto 97 componimenti.[3]    E-mail del 21 gennaio 2003.[4]    Anno luce: unità di distanza equivalente alla distanza percorsa in un anno nel vuoto dalla luce o da qualsiasi radiazione elettromagnetica. Poiché la luce si propaga alla velocità di circa 300 000 Km/s, un anno luce equivale a circa 10 000 miliardi di Km. Il grande  Atlante delle Stelle, Rizzoli, 2003, p. 110.[5]    Le gocce, p. 18. Vedi anche La strada del silenzio, p. 17, in cui la distanza tra le parole è la strada del silenzio poetico.[6]    Mésarthim, p. 43.[7]    “Fuoco”, parola-chiave che ricorre 36 volte in tutta l’opera, è superata solo dal termine “memoria”, 45 volte. La poesia iniziale intitolata Il fuoco  implicitamente allude anche al furto del fuoco da parte di Prometeo, da cui avrebbe inizio la civiltà:  così interpreto la parola chiave perdono, che chiude la prima e l’ultima strofa.[8]    Bételgeuse, p. 50; Bételgeuse è una stella supergigante rossa della costellazione dell’Orione.[9]    Cometa, p. 45.[10]  L’eclisse, p. 45.[11]  Castore, p. 62 (stella della costellazione dei Gemelli).[12]  Antares, p. 67 (Stella della costellazione dello Scorpione; ne è il cuore e il nome significa rivale di Ares/Marte con cui rivaleggia per il colore rosso). Cfr. anche La via Lattea, p. 42: Dove conduce il segno che qualcuno/ ha sospeso nel cielo, chi avrà cuore di/ seguirlo, camminare sulla luce/ e non restare cieco, non cadere). [13]  Terra, p. 54. Cfr. p. 46, p. 66 e 69.[14]  Cfr. Alla madre, I: [...]l’esattezza/ è una giusta attitudine che aiuta/ a spiegare una casa,  p. 30.[15]  Si vedano a tale proposito i nomi delle stelle della terza parte: Vega, Althair, Deneb, Aldebaran, etc. Su 55 componimenti della terza sezione 31 prendono il titolo dai nomi propri di stelle di 19 costellazioni diverse, 7 dai pianeti, 1 dalla nostra galassia (La via lattea), 2 dai satelliti: Luna e Ganimede, 1 dal nome di un nucleo galattico Quasar3C273.[16]  Cfr. Relazioni di logica, p. 32: Quanta fede domanda la sintassi/ per tenere la forma, sopravvivere/ come il chiarore a un fuoco d’artificio./ Quanta pazienza a cancellarla, il cielo. [17]  Compare spesso un interlocutore imprecisato, un tu, non di rado il poeta stesso.[18]  Cfr. Il non essere, p. 66: Il non essere è un dubbio, la memoria/ di un tempo che non sai. Resta al di sotto/ del piano dell’esprimere, si muove// nell’ombra tuttavia, ti rende inquieto./ Il non essere è un’ anima sottile/ fuori e dentro di te, cifra e destino. (vv. 9-14). [19]  La rete, p. 19.[20]  Quasar 3C273, p. 56 (nucleo galattico vicino alla costellazione della Vergine è l’oggetto più lontano distante 2 miliardi di anni luce dalla terra. I Quasar sono centri attivi di galassie molto lontane).[21]  Nashira, p. 58; (stella della costellazione del Capricorno).[22]  Sono tutti sonetti ad eccezione di 7 componimenti più i due senza titolo: Di che discorre...; Ora il tuo nome...; Il fuoco, p. 9; L’aria, p. 11; La terra, p. 12; Il prevalere dello spazio, p. 17; Molecole, p. 19; La memoria, p. 33; In profondo silenzio, p. 41.  [23]  Sono presenti talvolta nei sonetti anche qualche settenario, spesso si trovano parole-rima. Vedi per esempio La strada del silenzio, p. 17.[24]  Relazioni di logiche, cit. [25]  p. 48.[26]  Giove, p. 60. [27]  Pascal, Pensieri, 72.[28]  Logos, p. 57.
Data recensione: 01/01/2007
Testata Giornalistica: Polimnia
Autore: Sandra Di Vito