chiudi

A parte gli incunaboli che sempre ci sono all’inizio di una vocazione, cinque raccolte di poesie (che coprono lo spazio di una ventennale ricerca, mai interrotta, con relativo affinamento stilistico e di mezzi espressivi

A parte gli incunaboli che sempre  ci sono all’inizio di una vocazione, cinque raccolte di poesie (che coprono lo spazio di una ventennale ricerca, mai interrotta, con relativo affinamento stilistico e di mezzi espressivi) rappresentano un percorso credibile per tentare quanto meno la definizione dei termini della ricerca, partendo dall’ultimo libro, Repertorio d’infinito (Firenze, Edizioni Polistampa, 2006), che mi pare in ogni senso riassuntivo e di sintesi, oltre che di sviluppo, rispetto alle precedenti prove.  Repertorio d’infinito, quinta silloge di versi di Giovanna Fozzer, cui la poetessa ha dovuto prestare particolare cura per la levigatezza e l’alta cifra stilistica che lo contraddistingue facendone un libro solo apparentemente semplice, è uno dei migliori testi di poesia pubblicati negli ultimi anni.E’ un libro sapientemente costruito nell’articolata partitura in cinque sezioni tematiche contigue, nelle quali risultano definite “le forme del visibile” – come nota in prefazione Francesco Giuntini – in una sorta di soliloquio-colloquio con luoghi e paesaggi e cose della più elementare terrestrità però capaci di tenere costantemente ritte le antenne dell’io agens, volto a comprendere l’essenza metafisica della sua promenade fisico-mentale e i  significati assoluti dell’occasione e del vedere.Passaggi rapidi ma fortemente incisivi, inclinanti al versiculus e tesi a comunicare concetti, silenzi, illuminazioni profonde: sia che riguardino luoghi specifici, un quieto e chiaro profilo di Bologna:                        Biondezza                                 di geometriche argille splendenti                                a modulare colli e piano   o un’altrettanto luminosa chiarità di riva a Terracina, quasi musicalmente atteggiata:  Fulve biondezzedi rocce e cespugli,i cespugli rossi del Sud                                […]             Il  resto del Monte di Giove             Anxur             è grotte, cavità, rientri, crolli,               fin dentro la città franta ed antica. Sia che si riferiscano a lacerti di paesaggi, ad alberi, ai “tronchi nerastri dei bagolari”, alla vite che sta “crocifissa”, “sospesa/ all’ulivo dalla breve/ chioma/ selvatica d’incuria”, al “becco fine” di “capinera o pettirosso” che intona un canto d’amore, o più semplicemente alla “piuma di falco” che ondeggia “picchiettata/ nel cielo di pensieri e fantasie”.Possono così individuarsi (ma il testo offre spunti d’interpretazione e di lettura più estesi) gli addendi naturalistici di un possibile inventario del reale chiamato a comporre, per forza d’interiore sentire, un mosaico più complesso che riguarda non tanto la vita fisica o l’inerte condizione dei diversi inanimati reperti, ma attiene alla vita stesso dello spirito e alla prospettive teleologiche del pensiero umano.  Libro dell’anima, perciò, che misura il proprio pausato avanzare verso l’altro o l’altrove tra i referti minimi dell’esistenza e le pagine implicite del libro perfido del consumismo moderno, in un tentativo di decriptazione di segni che lascia un varco alla proiezione escatologica e scandisce nei reperti della res extensa il trapasso dall’umano al divino, librandosi dal cerchio dell’orizzonte sensibile ai cieli sereni d’una intuizione più alta.Libro di profonda solitudine, anche, e, se vogliamo, di aspra, romantica malinconia, una sorta di pianto sommesso sulle sconfitte del tempo e sulla memoria, nelle quali la vita mortale si involve ribellandosi alle prospettive del nulla e riscattando per frammenti l’acre amarezza di esistere:                         la benna del vivere                                la scavatrice che dentro                                continua                                a vuotare, e mentre vuota                                scuote le pareti. Ne cadono frammenti.  Per questa visione, così tanto ossessivamente reiterata in ogni cosa veduta e ritratta, l’autrice postula  un suo alto luogo elettivo, materialmente individuabile “lassù”, Dall’alta terrazza, donde chiarisce e lancia il suo manifesto poetico nella forma dell’interrogativo retorico. Cos’è la poesia per lei? Forse “un mescolare” il “vero immediato” con “gli elementi di cui sono ricche/ le acque nostre interiori”?  Esattamente questo, se il moto lirico trova la sua motivazione e la sua  genesi in un dato oggettivo  (“quasi incrostazioni marine/ sul grande dolio di Terracina”) che suggerisca una visione dolente e un rammemorare intriso di umanissimo pathos.Il “contemplare” e “il rimembrare” leopardiani, dunque, aggiornati dall’urgere del correlato oggettivo impiegato  anche ai livelli minori e minimi di realtà dismesse e fatiscenti e comunque di poco significato intrinseco di per sé presi, ma sublimati dal calore d’una amorosa visione capace di leggere una particola d’infinito anche in un relitto di plastica agonizzante su una spiaggia deserta tra innumerevole ciarpame reietto.E non è un caso se i modelli implicitamente richiamati, Gozzano e Montale, siano per conferire ai versi di Giovanna Fozzer e al suo procedere tra le rovine del mondo il senso di un rinnovato seguitare la muraglia o suggerire la triste reverie d’una pioggia osservata con angoscia in interminabili fili d’argento, o asseverare, soprattutto, l’insopprimibile risorgere della vita tra i “polloni verticali” d’un ulivo “caduto orizzontale/ seguendo la pendenza del prato”. Però, laddove  le alchemiche visioni del gelido sofista subalpino e l’interiore deserto del poeta delle Cinque Terre si rivelano tragicamente arenate sulle riviere del nulla, dentro questa stessa realtà  nullificata Giovanna Fozzer  pianta i vessilli del divino e sa essere spiritualmente.D’altronde, se lo stesso fare sliricato della poetessa consente di assumere il termine “liricità” esclusivamente nel suo significato generativo e riportare il ductus entro l’alveo d’un neocrepuscolarismo di grande valenza esistenziale e di alto significato religioso, è proprio a questi modelli  che bisogna guardare per comprendere gli archetipi per così dire “ideologici” di questa poesia, che per altra via possono bene individuarsi in Margherita Guidacci e nella amatissima Cristina Campo di Passo d’addio e, più, de Gli imperdonabili, della quale si condivide in exergo “la quasi mortale felicità dello sguardo senza possesso”, nell’ àmbito di una leopardiana Cotanta speme aperta e ricondotta pur essa a un’ “illuminazione mentale” di diverso e fortificante significato:  fu solo quella,farsi medesimo, illuminare, poter amare. Ma questo è ancora voler qualcosa mentre la meta è solo l’altra e non ha oggetto se non mentale.  Né si creda che l’approdo illuminante di Giovanna Fozzer sia colorato d’azzurro e interamente pacificato, perché la sua fede è la dolenza che l’accompagna, lo smarrimento inquieto nella pretesa armonia dell’universo, colto per epifanie di frammenti da una postura che a volte riflette la dinamicità delle forme dell’essere (si veda la sezione Cortometraggi e particolari), altre volte inclina ad un procedimento piuttosto statico della visione (si vedano i Paesaggi), ridotta nello spazio breve della distanza che corre dall’evento all’intelletto così illuminato:  Amare è un guardare taleche negli occhi entra il veduto,fluisceed occupa infine la mente.  In tale potenziamento della visione dentro le possibilità dell’intelletto, e diremmo anche del variegato e policromo immaginario paesaggistico che la sostiene e la ispira, la poetessa sembra avere assimilato al meglio, forse più di ogni altra analoga voce poetica contemporanea, la lezione di Emily Dickinson, indicata tra le letture decisive da una sapiente e attrezzata studiosa come Margherita Pieracci Harwell.  Il quadro complessivo rappresentato, comunque non riducibile ad un unicum che non sia la divina substantia celata sotto il velame, è quello d’una armonia che al fondo rimane inquieta e manchevole  di sfondo umano, se la presenza del proprio simile risulta come criptata nel testo, e solo due volte il libro si apre a uno struggente colloquio d’amore con chi ha già oltrepassato la soglia della vita mortale. Ciò accade nella reduplicata similitudine di Osmosi, conclusa nell’intimo sentire della sublimazione lontana:  Come tu lievitassi in ogni attimo, fiorissi in me, soave amato (infinito pallido cobalto d’orizzonte)  che da lontano posso infine amare  e nell’inesausto desiderio di comunicare, in Missiva, con chi ha lasciato unicamente la sua orma indelebile su ogni cosa caramente diletta:  Una lunga lettera amorosavorrei, o amato,saper scrivere a te,signore della lealtà,principe della misura e dell’assenza, in questo discorrere azzurrodi stagione e vita vitale, suprema.  Repertorio d’infinito è – come si diceva – un libro di rastremata eleganza: magistrale per chiarezza di linguaggio e nitore espressivo, infallibile nella scelta lessicale e semantica e nella collocazione giusta della parola sottomessa a un ritmo di cadenza classica. Un testo che sorveglia la liricità e forse nutre l’illusione di un canto che si sa perduto e, oggi, di difficile frequentazione: specchio dell’anima che si vorrebbe serena e in Dio pacificata attraverso le lodi delle creature inerti e viventi.In questo libro di Giovanna Fozzer è attuato quell’arduo procedimento estetico che si definisce  semplificazione (nel suo caso si tratta di e/semplificazione). In esso non troverete più di quattro o cinque endecasillabi, uno citato l’altro criptato in una misura più lunga o franto in segmenti minimi, l’altro ancora al grado zero della scrittura, pochissimi evidenti e sonori, ore rotundo, comunque minati dall’enjambement o dalla cesura strofica: “Un soprassalto se dall’ombra scura”; “fin dentro la città franta ed antica”; “e le petunie rinate ad ottobre”.Ma questa opzione stilistica era l’unica via da percorrere per tentare da riva dimessa le vie dell’Assoluto se, rispetto ad esso, polvere e fango si conferma in esistere il nostro periclitante soggiorno terreno tra le cose, tra gli uomini, su una piaggia silente popolata di scaglie lucenti e inutili, che però ci parlano di quel mondo lontano che, “da lungi”, Brentano sapeva ascoltare e riconoscere: “parla da lungi, mondo lontano,/ che di congiungerti a me sei vago”.Albero o vascello o mosca o fiume o piuma, Repertorio d’infinito risulta infine essere, anche nella sovrabbondanza esemplificativa, un sostanziale agostiniano vergiliato per le epifanie del divino (et eunt homines ad flumina ad montes ad lacus et obliviscuntur se ipsos), capace di coinvolgere il lettore in una sorta di religioso inno alla poesia cantato in tono minore da chi dalla vita non ha tratto sostanziale ricchezza, se dovizioso non fosse il proprio drammatico vivere a latere da presunta oggettiva distanza, in realtà ben dentro le cose e il loro senso recondito, vale a dire ben dentro se stesso e le proprie interiori risorse.
Tutto questo stava già nei precedenti quattro libri poetici di Giovanna Fozzer. Ma quel ch’era lì implicito o non detto o anche ricondotto nell’alveo di più specifiche tematiche, acquista qui, in questo Repertorio, chiarezza assoluta di visione e di espressione, vorrei proprio dire la chiarità abbagliante del vero, che acceca il cuore e la mente di chi possiede dentro di sé la favilla del divino, ma anche di chi desidera possederla.
Data recensione: 01/03/2008
Testata Giornalistica: Città di vita
Autore: Gennaro Mercogliano