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partiti politici nascono da esigenze profonde della vita nazionale e si radicano in essa - diventano per così dire «necessari» (Togliatti) - quando (e fino a quando) si dimostrano capaci di

Perché il bipolarismo italiano è ancora così primitivo e incapace di generare vera modernità? Rispondono con un volume a due voci Vannino Chiti e Michele Ciliberto che chiamano in causa le debolezze del pensiero laico e di sinistra.

I partiti politici nascono da esigenze profonde della vita nazionale e si radicano in essa - diventano per così dire «necessari» (Togliatti) - quando (e fino a quando) si dimostrano capaci di assolvere un ruolo fondamentale nella storia della nazione. Da questa lezione, giunta a consapevolezza teorica piena nel corso del Novecento, mi pare che prendano le mosse Vannino Chiti e Michele Ciliberto nel libro che hanno appena dato alle stampe: Un’idea dell’Italia. Dialogo fra un politico e un filosofo (Polistampa, Firenze). Nella letteratura politica corrente il dialogo non è forma letteraria consueta; tanto meno il dialogo fra un politico e un filosofo. Ma essi non l’hanno scelta a caso e a me pare che risulti quanto mai aderente ai contenuti dell’agile volume e all’obiettivo che gli autori si sono proposto.

I contenuti - basta leggere l’indice - interrogano la cultura politica del partito a cui essi appartengono (i Ds); l’obiettivo è quello di rendere pubblici i temi di un discorrere privato che dura da anni, originato dall’esigenza di andare al fondo delle cose, di approfondire le ragioni storiche e le implicazioni politiche delle sfide che ci si presentano all’inizio del XXI secolo. Credo che l’operazione sia riuscita. Un aspetto essenziale è la complementarità dei due interlocutori: l’esperienza d’un «politico di professione» allenato a radicare le proprie responsabilità in motivazioni etiche saldissime (Chiti); la riflessione intimamente nutrita di «sapere storico» di un’intellettuale che, per «professione», studia il pensiero moderno e contemporaneo (Ciliberto). Due «temporalità» e due prospezioni che non possono fare a meno l’una dell’altra, specie in un passaggio d’epoca che sfida la politica a misurarsi con il più profondo mutamento della modernità che finora si sia vissuto.

Se dovessi indicare il focus del pensiero degli autori, direi che per Chiti l’assillo principale è l’inconsistenza delle basi storiche della Seconda Repubblica, e per Ciliberto la carenza di una «religione civile» rinnovata, rigeneratrice della capacità di «iniziativa storica» dei gruppi sociali e delle élites intellettuali. Per questo il loro dialogo, intessuto di chiavi di lettura dei grandi mutamenti in corso e di risposte politiche puntuali alle sfide che ne discendono, non riguarda tanto i programmi, ma piuttosto i loro presupposti culturali. Ne risulta un’ampia sintesi, problematica ma molto elaborata, nitida e tutt’altro che banale, della cultura politica dei Democratici di sinistra; e poiché questa si è sviluppata in uno scambio continuo con le altre culture politiche del nostro tempo, viene fuori un tracciato della nuova identità riformista, profondamente lavorata dalle vicende «grandi e terribili» dell’ultimo ventennio. Chi pensa che il riformismo europeo d’inizio secolo non abbia un’anima, dalla lettura del libro sarà indotto almeno in parte a ricredersi. La ragione di quanto affermo è che, accanto a un’ampia tavola dei valori, Chiti e Ciliberto individuano con schiettezza le ricerche da proseguire o da impostare, le ragioni storiche e attuali del «riformismo anomalo» del nostro Paese (sempre incompiuto, diviso e persino «impossibile»), le debolezze teoriche della sinistra nei confronti del pensiero neo-conservatore che nell’ultimo trentennio ha impresso il suo sigillo ai processi di «globalizzazione».

Non potendo rendere conto d’una riflessione così ampia, cercherò di darne qualche rapido cenno. Chiti e Ciliberto s’interrogano innanzi tutto sul declino dell’Italia, ma il tema è ben più ampio che nel dibattito in corso sulle sorti dell’economia italiana: riguarda, per così dire, la proiezione dell’Italia verso il futuro e quindi evoca il nesso fra il presente e il passato della Repubblica. Perché non si riesce a compiere il passaggio ad una democrazia dell’alternanza di tipo europeo? Perché, rotto l’involucro della «Repubblica dei partiti», ha preso forma una destra così diversa dalla «destra di governo» prevalente negli altri Paesi dell’Europa occidentale? Gli autori sottolineano la mancanza di consapevolezza storica e di responsabilità etico-civile delle forze che hanno favorito e guidato il passaggio alla Seconda Repubblica. Ma non si fermano qui: l’Italia della Lega e di Berlusconi è il punto d’arrivo di una lunga incubazione, d’un mutamento della composizione demografica maturato attraverso lunghi anni che, prima ancora di rendere «morbosa» la condizione della Seconda repubblica, aveva corroso la fibra della Prima, causandone l’inabissamento. Il nuovo edificio non potrà essere tirato su finché le élites politiche e intellettuali non saranno in grado di elaborare una visione storica equilibrata e realistica della Prima Repubblica, che costituisca la base d’un sistema di valori condivisi, di «regole» ed istituzioni in cui iscrivere l’alternanza: in una parola, la «sostanza etica» della nuova architettura politica, che forse non appassiona la maggioranza degli italiani perché le motivazioni che finora sono state loro proposte non sono vere o del tutto persuasive. Questo implica la necessità di rimodulare il discorso pubblico sulla crisi della Repubblica, spostandone il centro dall’epilogo (1989-1993) all’inizio (1968-1978). Le riflessioni di Chiti e Ciliberto, al riguardo, mi paiono convincenti, specie se si vuol dare alla sinistra un fondamento storico più robusto di quello ereditato dalla stagione rovente della sua rifondazione.

Direi che anche per spiegare l’origine della Lega, la sua ascesa e la «miseria» della sua classe dirigente, che forse non ha l’eguale in Europa, conviene risalire agli anni ’70. Infatti, è negli anni Settanta che s’incrina il patto fra Nord e Sud che aveva consentito l’uscita dell’Italia dall’arretratezza, uno straordinario trentennio di modernizzazione democratica ed una unificazione del Paese che da allora si è fermata. Al tema della «religione civile» riconducono le riflessioni sulla modernità, che percorrono tutto il dialogo. Per stare al nocciolo della discussione, il tema fondamentale è la ridefinizione della laicità, vale a dire dell’autonomia, delle responsabilità e dei limiti della politica. La novità del problema sorge dal fatto che, declinando il ciclo storico dello Stato-nazione, la politica è chiamata a ridefinirsi in rapporto alla religione: sia perché sorgono nuove sfide che spingono gli uomini a interrogarsi in modo nuovo sul senso ultimo della loro esperienza, sia perché, di fronte ai problemi che per comodità nominiamo come sfide della «globalizzazione» e della «rivoluzione tecnico-scientifica», le grandi religioni sono saldamente in campo e tendono a guidare la politica in modo più diretto che nel recente passato. La tesi degli autori è che il pensiero politico contemporaneo non ha ancora elaborato risposte convincenti a quelle sfide; per farlo, il dialogo con le religioni è essenziale, poiché per far fronte ad esse sono indispensabili la collaborazione e l’unità di credenti e non credenti. Ribadito che compito della politica democratica è quello di regolare le scelte individuali in base a un’«etica della responsabilità», cioè di garantire la pluralità delle scelte sulla base di ciò che il pensiero scientifico e l’etica pubblica consentono di definire lecito, resta il problema di ricollocare il pensiero laico nei confronti di quello religioso. Credo che, così com’è stato fin dagli esordi della modernità, la sfida per il pensiero laico sia quella di offrire una comprensione dei fenomeni, degli eventi e dei processi storici più compiuta di quanto il pensiero religioso non faccia; e di indicare soluzioni alle sfide del proprio tempo più umane e più aperte al futuro di quanto le Chiese non tollerino. Insomma, si tratta di far vivere valori «religiosi» autentici più e meglio di quanto la dottrina e la prassi delle burocrazie ecclesiastiche non prevedano.

I capitoli del dialogo non terminano qui e dalle tracce che ho sommariamente indicato procedono pensieri fecondi sull’Occidente e sul futuro dell’Europa che costituiscono un solido punto di riferimento sia per rispondere ai fallimenti del pensiero neo-conservatore, sia per venir fuori dall’impasse dell’integrazione europea. Altrettanto ricco di indicazioni è il capitolo finale, dedicato al compimento della transizione italiana. È un peccato che, per ragioni di spazio, non possa qui addentrarmi in essi. Mi auguro che lo facciano i lettori, che da questo libro verranno certamente sollecitati ad approfondire la loro «idea dell’Italia».

Un’idea dell’Italia di Michele Ciliberto e Vannino Chiti viene presentato oggi a Firenze, in piazza SS.Annunziata alle 18,30, da Andrea Bigalli, Paolo Prodi, Simone Siliani, Giuseppe Vacca.
Data recensione: 06/07/2005
Testata Giornalistica: L’Unità
Autore: Giuseppe Vacca