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Da quanto non dormi? Hai gli occhi rossi, certe borse, il naso lucido, cola, labbra crepate, la schiena scricchiola, se la drizzi si

Da quanto non dormi?     Hai gli occhi rossi, certe borse, il naso lucido, cola, labbra crepate, la schiena scricchiola, se la drizzi si rompe come un biscotto. Per questo non ti muovi di un millimetro?     Leggi e scrivi da giorni: mai una sosta, sfogli le pagine leccandoti il dito finché non trovi quel che cerchi, allora apri la bocca, curvi le spalle e copî senza guardare il quaderno, costellando i margini di glosse con la tua grafia minuscola, più serrata delle celle d’un’arnia.     Da quanto non mangi?     Sei pallido, guance incavate, fiato che puzza di digiuno lontano un miglio, lo specchio si rifiuta di riflettere la tua immagine. Un malato all’ultimo stadio sarebbe più roseo.     E non mi ascolti, so che non ascolti una parola di quanto dico, benché finga d’ignorarlo per non turbarti. Ma devo riconoscere che non c’è ostilità nella tua noncuranza, non un bruscolo di malanimo, sarei pronto a giurarlo: per la prima volta in tanti anni non ne scorgo nemmeno un’ombra. Sei in buona fede, mi rendo conto, in assoluta buona fede, sento perfino che mi vuoi un po’ di bene, che hai imparato a considerarmi una parte di te, della tua vita, e di ciò non cesserò d’esserti grato.     Raramente hai raggiunto un così alto grado di concentrazione, eppure quanti rumori lassù, quanti gridi: lottano, si accapigliano, cadono, schianti che dovrebbero richiamare tutte le divise della città, un intero esercito; poi fanno pace, si riuniscono a consiglio e intonano litanie. Sembrano i preparativi di una battaglia, le prove generali d’un agguato, il cuore ne rimbomba come la cassa d’un liuto.     Che staranno architettando quei macchinatori d’intrighi? Te lo chiedi? Dovresti, perché le cose minacciano di prendere una brutta piega, mio caro, non posso passarlo sotto silenzio, anche se lo vorrei, ti assicuro. Una gran brutta piega. Chiunque al tuo posto entrerebbe nel cerchio di fuoco e sparerebbe tutte le cartucce; invece non mostri la minima apprensione, mai un fremito, un sobbalzo; inchiodi il mento al petto e rincorri un’idea, la testa piena d’ubbie, quasiché la stanza fosse foderata di sughero, come là, a Parigi, e una colata di cemento ti seccasse le vene. Se mi stupisce? Direi di no. È una nozione bell’e masticata, ormai. Lungi da me l’intenzione di menar gramo, ma faresti bene a seguire il mio consiglio: sciogliti da questa morte, adesso; scaténati dalle tue rotule e incassa il dovuto, prima che siano loro a bussare. Non voglio nemmeno pensarci.     Da quanto non prendi una boccata d’aria?     Vieni, guardiamo fuori.     Nella piazza non passa più nessuno da tanto, ormai, come se le strade intorno fossero murate; perfino gli aerei hanno cambiato rotta, e gli uccelli hanno smesso di posarsi sui rami degli oleandri: planano, ma sùbito si rialzano in volo sbattendo forte le ali; l’altra notte ho visto due gabbiani impennarsi di colpo e piombare stecchiti sulla prua di un cargo: fulminati dal panico. Chi, cosa li inquieta?     E perché séguitano a scavare, sotto un vento che sega la carne nell’acciottolato lustro di pioggia? Quel martello pneumatico non tace da settimane, lo senti nello stomaco, il pavimento trema sotto i tuoi piedi nudi, da un momento all’altro si squarcerà e sarai risucchiato in gola a Belzebù senza neppure il tempo di capire.     Dovresti tirar giù gli strumenti, far calcoli precisi: non puoi non aver notato che il canale parte dalla fogna e punta dritto da questa parte. Sono ancora a capo della salita, ma tempo pochi giorni arriveranno al centro esatto della casa, non c’è dubbio.     Del resto le tute di quegli operai sono di un rosso troppo vivo per non destare sospetti, e i loro volti più lisci del raso metterebbero in ansia un neonato. Hai visto con quale foga scrivono sui loro taccuini? che intesa quando sincronizzano gli orologi ogni volta che accendono il martello a gesti ora bruschi e frettolosi ora leziosi e ricercati? hai visto come nascondono gli occhi sotto le falde dei berretti? (a proposito: bisognerà decifrare quei simboli, tutti, al più presto, specie il geroglifico bruno a forma di manubrio che ricorda vagamente i tuoi baffi di un tempo).     Non fanno che flettersi sulle ginocchia tra i cespugli di ribes e strizzare gli occhi per seguir meglio i tuoi movimenti, comunicare nel loro gergo incomprensibile con voci arrochite dall’impaccio, lanciar segnali a quelli di sopra e a tutti i maschi del vicinato. Non fanno che ridere puntando gl’indici su di noi, e tu non muovi un ciglio?     Che hai in mente?     Ti conosco: quando fai così covi qualcosa di grosso. Parlami, ti supplico. Ti ho mai negato ascolto e comprensione? Non puoi lasciarmi all’oscuro adesso, proprio adesso che questa storia s’avvia verso l’epilogo a gran passi.     Non fissarmi a quel modo, smetti di schiacciare la lingua fra i denti. Dimmi piuttosto qual è il nesso fra l’assedio e questi libri che frughi con tanto impeto. Non che mi allarmi: i titoli che hai scelto rassicurano: secchi, essenziali; niente fronzoli, nessun cerebralismo.     Credo di capire: il ritorno alle Madri, il viaggio alle origini della natura umana. Della tua natura. Fosse così avresti superato te stesso. Quanto tempo ho dovuto aspettare per essere fiero del mio unico, grande amico.     Perché non leggi per me? Avanti, ti ascolto. […]
Data recensione: 26/03/2008
Testata Giornalistica: Archivio Barocco
Autore: Marzio Pieri