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Una veste tipografica semplice ed elegante si impone agli occhi del lettore nel prendere in mano questo poemetto. La recente collana Corymbos Poesia delle Edizioni Polistampa ospita autori qualificati e

Una veste tipografica semplice ed elegante si impone agli occhi del lettore nel prendere in mano questo poemetto. La recente collana Corymbos Poesia delle Edizioni Polistampa ospita autori qualificati e selezionati, poeti autentici.
Purtroppo il termine “poeta” oggi è abusato, stravolto e troppo spesso ingannevolmente proposto ad un pubblico sempre più condizionato e raggirato da leggi esclusivamente commerciali.
“Ogni vero poeta - scriveva Clemente Rebora nel 1956 nei suoi Pensieri in apertura ai Canti dell’infermità - (e pochissimi lo sono) […] ha in proprio il suo non comunicabile genio personale innestato nell’elemento unanime e perenne della cultura e della civiltà del suo tempo; per cui, questo elemento universale - e quanto più è purificato d’ogni ingombro contingente - lo fa diventare un classico”.
Un’intuizione che può scaturire solo da un poeta degno di questo nome, abituato a cercare con umiltà e fedeltà in se stesso l’“essenza” della vita e di tutto ciò che lo circonda, libero dagli ingombranti schemi e giudizi della società a cui appartiene.
Leggendo queste poesie di Maria Laura Gabrielleschi, cercando di penetrare il suo universo interiore, non ho potuto fare a meno di pensare a queste parole di Rebora ed ai suoi bellissimi testi (troppo spesso non adeguatamente valutati), mai morti, dunque entrati in quella dimensione di “classico” cui si accennava, al contrario di quelli di autori a lui contemporanei, crollati il più delle volte sulla loro vuota magniloquenza. Tutto questo anche se le poetiche dei due autori hanno ben pochi punti in comune. Eppure tutte e due, per la loro autenticità, colpiscono al cuore.
Il poemetto consta di una cinquantina di testi, distinti in tre sezioni e raccoglie poesie scaturite nell’arco dell’ultimo decennio (1997-2005), permettendo al lettore di farsi un’immagine abbastanza precisa (sebbene i poeti siano sempre sfuggenti ad ogni definizione) di questa complessa personalità di autrice e di donna.
La ricerca poetica della Gabrielleschi si svolge tutta all’interno di un impervio e doloroso percorso esistenziale in cui emerge la solitudine, struggente e rabbiosa al tempo stesso, eredità dell’incontro con l’uomo (ovvero gli uomini della sua vita): amara consapevolezza della fugacità, dell’illusorietà dell’amore umano. Alternativamente l’anima si rassegna e si ribella; nel sottofondo, tuttavia, nell’intricata foresta dell’inconscio dove i moti dell’anima seguono impulsi misteriosi, ancora “lo sgomento trema nel corpo”, ancora permette ai sensi di attendere e di rivisitare il sogno.
Già fin dalla prima poesia questo tema si annuncia e in pochi, limpidi versi si dispiega:
Restano in basso i giorni
Cancellati dal sole
I fili azzurri senza traccia
Di pene d’amore.

Il mattino colma lo spazio
Senza desiderio.

Aprire le porte e vedere
Ignote orme di piedi,
Non necessarie.

L’epigrammatico “non necessarie” a conclusione della lirica, già fornisce l’indicazione per comprendere il titolo dell’opera Compagno d’occasione, come peraltro, nella pagina che precede questa poesia, si poteva dedurre anche dalla dedica indirizzata a due care amiche che suggella un bel verso della W. Szymborska “Devo molto a quelli che non amo”, maggiormente chiarita dall’autrice in una nota alla fine della raccolta.
Con versi asciutti e quasi scabri nella loro semplicità - il dettato linguistico della Gabrielleschi insegue sempre l’essenza di ciò che le nasce dentro, rifuggendo inutili appesantimenti lessicali o acrobazie della parola - il discorso della poetessa continua nelle liriche successive compenetrandosi spesso alla natura o all’ambiente che fanno da sfondo. Così il mondo esteriore si trasfigura ed assume i colori lividi e stizziti della sua realtà emotiva: “E’ rimasta senza voce / La casa indignata / Della sua perdita…”, “Nella crudeltà dell’aria / Che bagna i tetti marci / Nello scuro disagio della sera / Spuntano bocche selvatiche…”, “Si prepara una primavera spoglia / i ciliegi tardano a fiorire…”.
Quest’ultima citazione è tratta dalla seconda parte del poemetto Amore obliquo. Qui il tono di questa poesia sprofondata nella disillusione, inizia leggermente a stemperarsi.
Sorgono accanto ai versi oscurati dall’ombra, altri versi più lievi, più aperti alla speranza: “Amore obliquo / […] / Sei il mistero che vuole la memoria.”, “Anche la luce / Che scende sopra il letto / E’ una traccia.” e, più avanti, nella bella Non ci sarà qualcosa nel mio nome, il mirabile distico che conclude il pianto-canto con la delicata immagine di un fiore “Sono nata di maggio / Peso quanto una rosa.”, simbolico abbandono, involontaria immedesimazione in una consolante e luminosa Bellezza, forse più di lei resistente alla fragilità.
Certamente essa deve proteggersi dai dolori che la vita, a tradimento, le infligge. "Tu non devi passare /Voce lenta che stacchi / A colpi di vento / Parole segrete.…”, “Cuore docile e armato / […] Ti chiedo lo scudo / La benda sugli occhi…”, “I cardini del cuore / Sono ben sigillati / Non lasciano entrare nessuno…”
Queste, seppur poche, tracce di lievità, mi sembra lascino spazio ad una interpretazione parallela e meno tragica del suo sentire perché, come sottolinea anche Franco Manescalchi in quarta di copertina: “l’alter ego è ambiguo, sfuggente, mortale, in bilico tra la fame e la sazietà…”.
Il disinganno e il vuoto giocano sicuramente un ruolo preponderante nell’animo di questa autrice, ma io credo che chiunque decida di affidarsi coraggiosamente nudo alla poesia, abbia ancora dentro di sé, vivo, il seme della speranza e chissà, forse, quella “ignota sventura pronta dietro l’angolo” ci cui la poetessa sembra così certa, potrebbe non essere tale.
Data recensione: 23/01/2008
Testata Giornalistica: NovecentoPoesia
Autore: Annalisa Macchia