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Sarebbe improvvido, nel condire d’impressioni la piacevole lettura di questa prima silloge di Michele Brancale, giovane poeta di residenza fiorentina e militanza giornalistica, impelagarsi in un’ontologia della forma e della

Sarebbe improvvido, nel condire d’impressioni la piacevole lettura di questa prima silloge di Michele Brancale, giovane poeta di residenza fiorentina e militanza giornalistica, impelagarsi in un’ontologia della forma e della metrica, magari in polemica col Credo del "verseggiare libero e poco assorto" che egemonizza il nostro tempo. Le considerazioni sarebbero troppe, e andrebbero fondate su una bibliografia alla lunga incompatibile col tono disteso e colloquiale della recensione. Può in questa sede essere utile limitarsi al dato statistico per cui, al giorno d’oggi, trovarsi dinanzi a liriche codificate nel metro e soprattutto nella rima, come gran parte di queste, è assai improbabile. Altrettanto proficuo potrebbe essere domandarsi se la costrizione sillabica ed omofonica davvero sia tale; o se essa, attraverso la ricerca sulla parola che impone, ampli piuttosto il lavoro di scavo del poeta, e dunque il suo armamentario espressivo. S’intraprendano o no questi ragionamenti, è un fatto che l’aspetto formale, nelle liriche di Brancale, sia rilevantissimo. Tutto ruota attorno alla stanza: essa è - come vedremo - il luogo fisico da cui muove il disporsi poetico dell’Autore, ma soprattutto è sinonimo di ottava. Nella prima delle cinque sezioni della silloge, intitolata appunto Dalla stanza, e così pregnante da essere eponima della collana a cui il libro appartiene, si applica pressoché ovunque il modello dell’ottava toscana (vale a dire ABABABCC). Entro questo schema, però, non si rinuncia a varianti indicative, che spostano l’ago della bilancia - in pratica l’approccio al componimento - dall’oralità alla pura lettura: rispetto alla tipica ottava "cantata", si conserva la struttura endecasillabica in maniera assai più rigida, con pochissimi scarti ipo/ipermetrici; più ancora, il valore endecasillabico è spesso ottenuto tramite sinalefe, cioè elisione metrica tra vocali contigue; infine, frequentissimo è l’impiego dell’enjambement. I suindicati aspetti evidenziano una presa di distacco dalla classicità del modello toscano adottato: l’endecasillabo non consente al cantore i tipici allungamenti o accorciamenti adattivi; la sinalefe fluidifica la recitazione del verso, riducendo le possibilità d’enfasi; del pari, la legatura azzera la tradizione orale di trattare ogni linea come una monade. L’ossequio di Brancale alla forma atavica, dunque, non rinuncia a scostamenti che ben si adattano alla moderna astrattezza dei temi trattati. Essi, come scrive il poeta peruviano Isaac Goldemberg nella sua Prefazione, si sostanziano in un ideale «equilibrio tra concettualità e sensorialità»: equilibrio diffuso come gelida ed uniforme nebbia lungo tutto il ciclo, nel quale gli indizi di vita vissuta diventano ragionamento a valenza universale, senza mai indugiare nell’autorappresentazione. La ricordata prima sezione è esplicita nel pascersi del bisenso architettonico e poetico del termine "stanza": oltre all’utilizzo letterale del lemma (ottave 3, 26, 28), il movimento della poesia promana, per il settimino d’apertura, da luoghi fisici della casa verso l’esterno del mondo (o gli spazi dell’anima). Qui molti sono gli esiti di livello, tanto da rendere Dalla stanza il fulcro del volumetto. Mirabile, ad esempio, è la seconda ottava - in cui il poeta, prendendo le mosse del suo dire, ha il coraggio di disporre se stesso ad allegoria dell’incomunicabilità...

Quando è chiuso in un unico pensiero
chiude la porta. Si abbandona, molto;
sembra che si immerga, per un sentiero,
nel sole e invece si oscura nel volto.
Perché poi si affidi così è un mistero
che toglie suono alla città, che stolto
rende il tempo. Ruggine sui cardini
ruota su di sé, solo, senza argini.

...ricordando assai da vicino i sapienti di Kavafis, in ascolto solitario di ciò che si approssima:

...Le loro orecchie a volte / nelle ore della profonda meditazione / si turbano. Il segreto rumore /
dell’indomani in cammino arriva loro. / Ed essi l’ascoltano con rispetto. Mentre nella strada, /
fuori, la gente non sente niente.

Così come di grande impatto è il dittico 17-18, ora elegiaco ora cromatico, dedicato a due diverse forze centrifughe, di alterna provenienza, che scagliano il singolo, a torto o a ragione, lontano dai suoi simili:

Il luogo comune che fa la media
è il senso originale di sapere
qualcosa: il velo che copre, che assedia
l’autenticità, fa solo valere
lo scarto con la volontà, rimedia
alla realtà con le parole altere,
per cui sensibile a te stesso, e molto,
lasci i poveri alla porta: sei stolto.
L’aspettativa imposta agli altri verso
di te compone, come in prospettiva,
un panorama all’apparenza terso,
all’inizio, dalle nuvole a riva;
si rabbuia, facendosi l’inverso,
meteora, da desiderio a deriva,
da duttile a pietra, rancore muto,
fibra tesa, offesa, dolore acuto.

Dopo una seconda sezione, La fontana di Azzàro, in cui Brancale, in un’orbita di Heimfahrt paesano, dà maggior libertà alla sua penna, sperimentando metriche alterne, svestendo i panni del rimatore, e soprattutto - il che a nostro avviso lo fa meno efficace - rendendo meno miscibili osservazione e meditazione, ecco tornare ampi sprazzi della felicità iniziale nella terza parte, All’esistente-inesistente, ove ci si cimenta con la (frequente in poesia) tematica dell’assenza/presenza delle persone care. Per terzine incatenate (altro omaggio, stavolta a Dante; ma senza rinunciare a disporre modernamente il verso, come abbiamo già notato), e strofe assai più estese, si torna all’efficacia dell’esordio, entro una densa recherche affatto proustiana di luoghi che possano far scaturire un soffio degli amati:

...Allo scopo
di cercarne la presenza, una traccia
di passaggio sotto l’arco del tempo,
come per carpirne un dono (che taccia
un po’ la piaga), mi abbasso tra i rami
scesi sul sentiero, perché si faccia
strada l’intuito, andando oltre i cascami,
verso i luoghi noti a te. La livida
consistenza dei pantani, i dettami
dell’amore che non rinuncia, umida
la radura a sera mentre le esili
correnti del fiume rendono algida
la cornice dell’attesa: labili,
a pensarci, gli altri particolari
del paesaggio. Nel quadro, possibili
alcuni ontani.
Se davvero i cari
riapparissero all’improvviso, questo
potrebbe fare paura, contrari
nell’ordinario (dal loro contesto)
alla nostra umana possibilità
di sostenere l’evento. Del resto
il nostro cercarli (o il loro) dà
forma a un desiderio, si fa preghiera...

Oltre all’ottima soffusione paesaggistica, questo potente estratto dall’epos del nono componimento della sezione, dà conto, nella sua ultima parte, anche di quella sostanziale «potenzialità diegetica» che Goldemberg riferisce al singolo quadro, ma che noi intenderemmo soprattutto come trasversale sfaccettatura dell’azione, dell’unità dinamica, connotata da una pluralità di prospettive che la rendono "assolutamente relativa" e quindi interpretabile all’infinito... Chiudono il libro, quasi seguendo la via del Pierrot Lunaire di Giraud/Schönberg, due liriche che assurgono a singole sezioni, Ritorno a casa e Arrivederci. Certamente non mancano, in questa prova di Brancale, le piccole impurità, spesso sostanziate in ostinati fini a se stessi o dettati dall’ortodossia metrica, né gli elementi di discontinuità del respiro generale, sussunti dal nostro giudizio di circoscrivibilità delle altezze entro due sezioni, la prima e la terza. Nondimeno, si tratta di un’opera potente, capace di rispondere al richiamo del lettore attento, e lusingarlo a più livelli: quello della eleganza formale, quello - persino didattico - del coraggio strutturale (sia nel recuperare forme classiche, che nel riplasmarle), quello della ricchezza cognitiva. Per una silloge d’esordio (sia pur da un Autore di robusto corso letterario), è un risultato assai positivo ed incoraggiante, che rende La fontana d’acciaio meritevole di approccio ed abbeverata.
Data recensione: 21/12/2007
Testata Giornalistica: robertocorsi.wordpress.com
Autore: Roberto R. Corsi