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Qualche mese fa, in un’intervista rilasciata a Luigi Amicone sul mensile “Tempi, Ettore Bernabei, storico direttore generale della Rai e grand commis nell’’Italia democristiana, osservava che pubblicando la paura e la

Qualche mese fa, in un’intervista rilasciata a Luigi Amicone sul mensile “Tempi, Ettore Bernabei, storico direttore generale della Rai e grand commis nell’’Italia democristiana, osservava che pubblicando la paura e la speranza Giulio Tremonti aveva scritto un libro di “keynesimso puro”, che “avrebbe potuto scrivere Giorgio La Pira”. E non lo sosteneva per tessere un elogio gratuito del ministro, ma per far risaltare la fine di un’epoca, segnata dalla bancarotta morale, ancor prima che economica, del capitalismo anglosassone.  Se un uomo come Bernabei, che aveva iniziato la sua carriera giornalistica come collaboratore del sindaco santo e direttore del Giornale del Mattino esprime questo parere sul libro che costituisce il manifesto economico e politico del Pdl, un fondo di verità c’è, e lo confermano le recenti dichiarazioni dello stesso Tremonti, secondo cui “l’alternativa non è fra Stato e mercato, ma, all’interno dello Stato, fra mercato e sociale”. In un clima di questo genere è naturale un ritorno di interesse nei confronti di Giorgio La Pira, figura a lungo incompresa a destra, con rare eccezioni, come il giovane Giano Accame, e traviata del resto dalla stessa sinistra clerico-comunista. Si potrebbe obiettare che lo stesso La Pira si prestò in più di un’occasione a tali fraintendimenti, abbinando a una straordinaria lucidità intellettuale, che gli derivava dalla sua formazione teologica tomista e scientifica di studioso del diritto romano, un’imprevedibilità di comportamenti che fece la gioia dei suoi avversari, come il direttore della Nazione Enrico Mattei, e la disperazione dei suoi referenti politici romani. Nato nel 1904 a Pozzallo, in provincia di Ragusa, e trasferitosi successivamente a Firenze dove aveva ottenuto giovanissimo la cattedra universitaria, La Pira apparteneva con Giuseppe Dossetti e lo stesso Fanfani alla generazione dei “professorini”, formatasi negli anni fra le due guerre fra la Cattolica e la redazione del Frontespizio e confluita poi nella corrente democristiana di “Cronache sociali”. Ma, a differenza del primo, non fu mai vinto dalla tentazione di ritirarsi dalla politica e, diversamente dal secondo, non aderì al fascismo, a parte alcuni articoli giovanili influenzati da un’infatuazione dannunziana. Critico del totalitarismo nella rivista Principi, dopo la guerra fu deputato alla Costituente e sottosegretario al Lavoro, ma nel ‘51 fu candidato a primo cittadino di Firenze, in opposizione al sindaco uscente, il comunista Fabiani. In stretti rapporti col cardinale Elia Dalla Costa e col fondatore della Madonnina del Grappa don Facibeni, si presentò con un programma fermamente anticomunista,  ma ricco di aperture sociali, e vinse grazie a un largo consenso tra i ceti popolari. Ma be presto emerse il suo conflitto con i liberali e le componenti moderato-conservatrici del suo stesso partito. Il suo appoggio ai dipendenti che occupavano le aziende, le sue pubbliche prese di posizione contro il padronato che licenziava gli operai, la sua scelta di requisire le case sfitte per alloggiare tutti gli sfrattati, suscitarono lo scandalo della borghesia benpensante. D’altronde, La Pira era un seguace un po’ eclettico del pensiero sociale della Chiesa, capace di mettere insieme La Tour du Pin e Maritain, ma soprattutto, da ex membro dell’Assemblea Costituente, era convinto che l’articolo 4 della Carta relativo al diritto al lavoro comportasse per lo Stato il dovere di assicurare la piena occupazione. E lo faceva utilizzando concetti tipici del corporativismo medievale e cattolico, per esempio parlando per gli operai della tutela della “proprietà del mestiere” di chi non altri beni se non il suo lavoro. La Pira finì, d’altronde, per trovarsi in urto anche con uno dei più qualificati esponenti del cattolicesimo politico italiano: il sacerdote don Luigi Sturzo, fondatore del Partito popolare, che , ritornato in Italia dopo l’esilio e la guerra, aveva accentuato le sue posizioni antistataliste e che aveva compiuto, con l’operazione passata alla storia col suo nome, il primo tentativo di inserire il Msi in un’alleanza di centrodestra, sia pure a livello amministrativo. Il sacerdote di Caltagirone aveva avuto modo di apprezzare La Pira quando, deputato alla Costituente, aveva cercato di far premettere al testo della Carta l’espressione “In nome di Dio il popolo italiano si dà la seguente Costituzione”: una proposta che – come egli avrebbe scritto il 243 dicembre 1947 - “è servita a far echeggiare a Montecitorio il nome di Dio in purezza di fede. Quando però, sei anni dopo, La Pira da sindaco cavalcò la protesta degli operai del Pignone finché non riuscì ad ottenere da Enrico Mattei, tramite i buoni uffici di Fanfani, l’acquisizione da parte dell’Eni della storica fonderia fiorentina, che la proprietà voleva chiudere, il divorzio fra due concezioni dell’economia e anche della società non poté non emergere. In un articolo che ebbe larga risonanza, uscito sul Giornale d’Italia del 13 maggio 1954, don Sturzo accusò il sindaco di Firenze di statalismo, facendo proprie, nella sostanza, le posizioni già espresse da un altro cattolico, il presidente della Confindustria Angelo Costa. Ne derivò una polemica aspra e per molti aspetti penosa, in quanto coinvolgeva te uomini di alta levatura culturale. Di essa finora erano note soltanto le manifestazioni pubbliche, ma oggi è possibile apprenderne i doverosi retroscena privati grazie al saggio di Letizia Pagliai Per il bene comune: poteri pubblici ed economia nel pensiero di Giorgio La Pira (Polistampa, Firenze 2009, pp. 264, € 16). Oltre alla prefazione del professor Piero Roggi, già editore dell’epistolario fra il sindaco santo e Fanfani Caro Giorgio... Caro Amintore (Polistampa), e al saggio della curatrice il libro comprende una vasta cernita di documenti editi e inediti, fra cui il carteggio fra La Pira, Costa e don Sturzo, alcune sue lettere al cardinal Dell’Acqua e a Fanfani, e una selezione di articoli comparsi all’epoca sulla questione dell’intervento pubblico nell’economia.Perché è di questo, sostanzialmente, che si tratta. Don Sturzo, un po’ per la sua giovanile formazione liberistica un po’ per reazione al fascismo, un po’ per la lunga frequentazione della società anglosassone, era fermamente contrario a ogni forma di interventismo economico, in cui scorgeva una forma di corruzione della società e di dispersione di risorse. La Pira era convinto che fosse prioritario, per chi svolge attività di governo locale o nazionale, rispondere ai bisogni pressanti della povera gente e, rifacendosi anche al magistero pontificio da Leone XIII a Pio XII, intravedeva un “rapporto di causalità fra il sistema economico di tipo liberale e la genesi e l’espansione del marxismo”. Su questo terreno egli però si collocava anche sulla scia degli studi compiuti da Amintore Fanfani in tema di “neovolontarismo economico”, prosecuzione del suo tentativo di coniugare ai tempi della Cattolica, pensiero sociale cattolico e corporativismo degli anni Trenta. Chi dei due aveva ragione? Fino a qualche anno fa l’impegno di La Pira a difesa delle industrie in parte decotte poteva essere considerato anacronistico e patetico, così come anacronistico, in talune missive dei tardi anni Cinquanta, ne appare certo livoroso antifascismo, che non risparmiava lo stesso don Sturzo, ingenerosamente accusato di di corresponsabilità nell’avvento del regime, lui che ne era astato una vittima. Ma oggi, in un Occidente (e anche in un Oriente) che sta pagando a caro prezzo la spregiudicata finanziarizzazione dell’economia e il divorzio fra questa e la morale, il quesito appare tutt’altro che ozioso, fermo restando il rispetto per due fra le personalità più oneste e carismatiche del cattolicesimo italiano e europeo del secolo scorso: don Luigi Sturzo, che dopo essersi coraggiosamente opposto al fascismo, capì dopo la guerra che era necessario accantonare gli odi del passato per unire tutti gli italiani di buona volontà nella lotta al comunismo e Giorgio La Pira che avrebbe largamente scontato le sue ingenuità quando, nell’ora triste dell’Isolotto, si sarebbe schierato con il cardinal Florit contro i contestatori in base all’eterna massima ubi Episcopus, ibi Ecclesia.
Data recensione: 31/03/2009
Testata Giornalistica: Secolo d’Italia
Autore: Enrico Nistri