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Non ho nessun dubbio che l’attività critica di Gualberto Alvino stia tutta sotto l’egida della critica militante. E di una critica militante a mio avviso di altissimo livello. Eppure Alvino non ha spazio alcuno a disposizione

Non ho nessun dubbio che l’attività critica di Gualberto Alvino stia tutta sotto l’egida della critica militante. E di una critica militante a mio avviso di altissimo livello. Eppure Alvino non ha spazio alcuno a disposizione sulle sempre più asfittiche e monocordi pagine culturali della stampa periodica. Né tantomeno esercita il suo esercizio critico in radio o in televisione, mezzi che destinano ormai anfratti sempre più angusti e scomodi del loro variegato palinsesto a tale quasi desueta attività. E questo non per snobismo accademico, perché anzi Alvino non è organico a nessuna accademia. Pur insegnando con impegno in quel luogo di pena che è oggi la scuola italiana, Gualberto Alvino da anni trova il tempo di dedicarsi ad un’ammirevole attività di ricerca e di critica letteraria, della quale solo di recente sta raccogliendo i risultati. Per di più con una generosità temeraria e direi donchisciottesca ha scelto un campo d’indagine impervio e oggi quasi impraticabile: quello delle opere di grandi scrittori contemporanei, tra i meno amati dal grande pubblico, dalla stampa e dagli altri media, dalla critica accademica e da quella che si spaccia per militante, e last but not least dalla grande e media editoria. Le opere di D’Arrigo, di Pizzuto, di Sinigaglia, tanto per fare qualche nome. Ma è soprattutto ad Antonio Pizzuto, lo scrittore siciliano che dovrebbe occupare nel panorama letterario novecentesco un posto altrettanto adeguato di quello nel quale viene collocato Carlo Emilio Gadda, che Gualberto Alvino ha consacrato la parte più rilevante del suo lavoro critico. A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, con l’ideazione e la cura del numero monografico dedicato a Pizzuto dalla «Taverna di Auerbach» (1988), la rivista d’avanguardia animata da Gianni Fontana, Alvino è stato promotore di una fittissima serie di iniziative volte a rimettere in circolazione i testi pizzutiani, a propiziare la pubblicazione di importanti inediti, a certificare l’esistenza in vita letteraria di uno dei grandi del Novecento ingiustamente misconosciuto, rimosso, ridimensionato. Tutto questo lavoro, meritoriamente svolto da Alvino, non sarebbe di certo stato possibile senza l’appoggio della Fondazione Antonio Pizzuto, voluta da Maria, la figlia dello scrittore che ne custodisce a Roma il ricchissimo archivio. Vanno segnalate almeno — per la perfetta cura filologica, assai rara per autori contemporanei — le edizioni di testi inediti come Giunte e virgole (1996, Roma, Fondazione Piazzolla), Spegnere le caldaie (1999, Cosenza, Casta Diva) e di epistolari come Telstar. Lettere e Margaret Contini (1964-1976) (2000, Firenze, Polistampa), di carteggi importanti come quello con Giovanni Nencioni, Caro Testatore, Carissimo padrino. Lettere (1966-1976) (1999, Firenze, Polistampa) e il recente con Gianfranco Contini Coup de foudre. Lettere (1963-1976) (2000, Firenze, Polistampa). Splendido esempio, quest’ultimo, dello stretto rapporto tra un grande scrittore e un grande critico, che avrebbe meritato un’attenzione ben maggiore di quanta ne abbia avuta dall’editoria e dalla critica. Dalla grande editoria che considera gli epistolari, anche i più importanti, solo una iattura sul piano delle vendite, e dalla critica che avrebbe solo da imparare sul piano comportamentale dall’attenzione che un maestro del calibro di Contini seppe dedicare a un outsider come Pizzuto che di fatto esordiva a sessantasei anni. Ma, tornando a Gualberto Alvino, occorre infine ricordare che ha opportunamente raccolto gran parte dei suoi interventi critici, molti dei quali dispersi in giornali e riviste spesso introvabili, nel volume emblematicamente intitolato Chi ha paura di Antonio Pizzuto? Saggi, note, riflessioni (2000, Firenze, Polistampa). Un libro che mostra assai bene due aspetti del suo pluriennale lavoro: quello intrepido, scientificamente attrezzato del filologo, del lessicografo e del linguista in senso lato che ci fornisce una preziosissima guida al vocabolario di Pizzuto e alle sue varianti, e quello appassionato del critico militante nel senso più elevato del termine, capace di difendere e attaccare una linea avversa e insensibile all’alta idea di sperimentazione interpretata da Pizzuto e di passare al contropelo decenni di rarefatti interventi critici denotanti un’incomprensione di fondo per l’opera dello scrittore siciliano. E basterebbe da solo a testimoniare la militanza del libro, l’urticante capitolo dal titolo La sindrome di Berlino nel quale viene attaccato a fondo e persuasivamente il pamphlet Ingrati maestri di Massimo Onofri, sodale di Siciliano e di Colasanti in «Nuovi Argomenti», ritenuta a ragione roccaforte del gusto più retrivo e attardato nella letteratura italiana contemporanea, nella sua ottusa ostilità verso ogni linea di ricerca e di sperimentazione.GIURIAGuido Almansi, Gianfranco Baruchello, Cecilia Bello (segretaria), Filippo Bettini (presidente), Gianni Borgna, Marcello Carlino, Aldo Clementi, Tullio De Mauro, Franco Falasca, Giuliano Ferilli, Franco Ferrarotti, Ludovico Gatto, Guido Guglielmi, Carlo Lizzani, Mario Lunetta, Aldo Mastropasqua, Predrag Matvejevic, Francesco Muzzioli, Stefano Paladini, Giorgio Patrizi, Lamberto Pignotti, Paola Pitagora, Fausto Razzi, Mario Quattrucci, Jacqueline Risset, Chiara Valentini
Data recensione: 01/12/2001
Testata Giornalistica: Premio Feronia
Autore: Aldo Mastropasqua