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Si è già fatto conoscere questo autore, poeta fiorentino, medico, sulle pagine di «Humanitas», nel 2003 (G. Fozzer, Fuoco e cenere, tenebra e parola. “La fabbrica del tempo” di Francesco Giuntini in segno e cifra, pp. 171-183). La

Si è già fatto conoscere questo autore, poeta fiorentino, medico, sulle pagine di «Humanitas», nel 2003 (G. Fozzer, Fuoco e cenere, tenebra e parola. “La fabbrica del tempo” di Francesco Giuntini in segno e cifra, pp. 171-183). La cerchia che lo apprezza è ancora troppo ristretta in relazione all’elevatezza lirica che egli attinge. Appartato, la sua produzione è sobria, meditata, sotto il peso, direi, di un’ananké interiore che, come per Leopardi, s’atteggia con l’inesorabilità del fato (Instanbul, 1980; Del poggio e della pietra, 1991; e la recensita silloge La fabbrica del tempo, 2001). La sua ispirazione nasce da una dialettica «insonne», «assidua» (sono aggettivi ricorrenti nei suoi versi); una contemplazione, lucreziana, ma senza la passione proselitistica del cantore del De rerum natura, e senza la vampa dei «furori» bruniani, della realtà spazio temporale, in un’ottica scientifica immediatamente accesa di abbaglianti flashes metafisici; la «memoria» (altro vocabolo frequentemente) dolorosamente totale, esaustiva per lui, di una vicenda esistenziale di profonda dialogicità che anela il ridipanarsi di una corrispondenza di voci attraverso un muro trasparente di vita smarrito nell’infinito. È un cespite duplice, eppure vitalmente unificato, di un canto del tutto singolare nel panorama della poesia italiana, e non solo quanto al “contenuto”: sguardo d’ammirazione-stupore-interrogazione strenua sulle cose dell’universo, nella loro enigmatica presenza, nel Da-sein, non nella declinazione antropologica del primo Heiddeger, bensì in una (ultima?) irresolubilità del loro «senso» (più e più volte incontriamo in Giuntini questo vocabolo, che vorrei interpretare come «vettore», la sperata – e non creduta pacificamente- direzione che alfine dia ordine e «misura» agli erramenti, ineluttabilmente ritornanti, dei corpi celesti, e della terra degli umani; anelito, non gioiosamente bramoso, piuttosto spossato nei suoi ripetuti slanci lungo l’irrimediabile percorso nel tempo, a ricongiungere i margini di una ferita, o meglio le sponde di una frattura – la morte precoce della sposa – rive d’assenza tragicamente incomparabile). È facile avvedersi che, privi dell’incantamento stilistico – uso di proposito un termine tale da compromettere il recensore – questi due poli potrebbero abbassarsi, da un lato, a un’arida elencazione di fenomeni, forse anche imbrillantati di colore, atteggiata in un pluralismo gratificante e mirabile di forme e di parvenze, e, dall’altro, in una serqua lagnosa, sentimentalistica di invocazioni, o in un chiacchiericcio colloquiale solo sognato o visionario con la defunta. Direi che la cifra dello stile di Giuntini è in quella parola, «misura», che non a caso entra nel titolo delle sue ultime raccolte: un austero piegare alla finitudine- quando lontano dal métron e insieme méson aristotelico con il suo nobile e «conveniente» equilibrio! - che si traspone senza alcuna forzatura nella classicità del dettato poetico, attuale e al tempo stesso immemorabile nella sua esatta definitezza.
Ma, dopo aver cercato di offrire al lettore un’indicazione ermeneutica, allineo alcune note sulla struttura del volumetto (denso per altro anche tipograficamente, ad evitare certe incongrue e paradossalmente ingombranti spaziature di plaquettes pretenziose e magari mediocri), e sull’arte impiegata nell’architettura del plessi, in cui la silloge si articola: le composizioni, talvolta brevissime, ma per lo più assumenti la struttura metrica del sonetto, o avvicinantesi ad esso (come è ovvia consuetudine ormai, felicemente spontanea, lungi dalla costruzione della rima), si collocano sotto i titoli Degli Elementi Sensibili, i quattro tradizionali (pp.7-12), Delle Terre Emerse (pp.15-34), Per le Sfere Celesti (pp. 39-70) e ad epilogo, una lirica senza nome, sul passaggio tra la fine e il Capodanno. La scrittura, tutt’altro che inesperta di raffinate movenze, sobriamente musicali, assonanze, scontri voluti di tonalità – fuggite le comode onomatopee – iterazioni, come rintocchi di campana, enjambements, allungamenti di proposito del suono di un sostantivo, di un verbo nella durata in due versi, s’avvale di una varietà di incipit, di una rapida, e di tratto in tratto efficacemente spiazzante, successione di diversi destinatari o soggetti meditanti, dal «tu» al «noi», dall’«io» o «me», dal «chi» a un indeterminato «essi». L’alternanza dei tempi e dei modi verbali, che non appare strumento manierato di captazione, obbedisce piuttosto a un imperativo interiore. L’esito è una scansione netta, pacata e quasi solenne e tuttavia scevra di una obsoleta aulicità, di costrutti che invitano il lettore ad un insistito, penetrante percorso meditativo.
Il concreto, talora minuto, degli spunti, che potrebbe, sotto altre penne, persino scadere in una bozzettistica banale, risulta trasfigurato da un’astrazione scientifico-filosofica, aliena da ogni estenuazione di romantico idealismo; uno sguardo che trapassa con sofferta istantaneità la pietra di L’Anfiteatro, la forma stereometricamente perfetta di Le gocce (p.18), i nodi di La rete, travagliata dal vento (p.19), l’entità fisica di Il muro del suono (p.20), le particelle della Polvere (p.23), come le «molecole del tempo», che si sprigionano, aperti i fogli, dalle Carte d’archivio (p.21), l’ondeggiare irregolarmente ritmato delle Canne da pesca (p.24), l’affaticato ascendere sui gradini di La scalinata (p.26) o, già assurto nell’etere perenne della memoria, Lo spazio tra le case (p.29).Di questo trapasso, di questo spirituale, non magico, Augenblick trasvalutante la dimensione spazio-temporale nel confronto con un’eternità, la quale, intravista e subita, è certo il più ellenico aiόn che la cristiana aeternitas della definizione di Boezio, vorrei offrire qualche esempio, né pretendo di ricorrere a una selezione, tanto la qualità lirica è sempre equivalente in altezza. Ecco, tra gli Elementi, di presocratica catalogazione, L’aria (p.11): «Chi sapesse | dare un nome a ciascuna particella | che | fluttua |in | con | sapevolmente lieve | potrei guardarlo in viso, riconoscere | l’altra metà di me, segno | e materia». Oppure, fulmineità di osmotica fusione tra materialità e trasparenza ontologica, la già citata Rete: «Il nodo che conferma quattro fili | sa credere in se stesso, quanta fede | occorra per tenere in qualche forma | la scansione del vuoto non accetta | gli venga chiesto. È la natura propria | del nodo, questa tacita obbedienza, risponderebbe, se volesse, al vento | che traversa la rete e affatica | la fibra. Si tormenta la materia | nel dialogo col vuoto, o con l’assenza | forse, di questa fede. Quattro fili | confermano la forza o la lentezza | del nodo e ad ogni palpito di vento | tornano a interrogare la sua fede». O ancora, la densità simbolica di La madre mano (p.25), in cui la tattile pieghevolezza della mano nel rapporto con gli oggetti è forse nostalgia di un’umana (divina?) tenerezza plasmante, che via via si spegne in un’enigmatica oscillazione nell’“etere”. «Apprendere il contatto con le cose, | scoprirne la durezza o il cedimento | della forma, la linea che si flette, richiede molte prove | molta fede. || La madre come spazio per le mani, | la madre mano, il moto che modella | del suo calore il mondo delle cose. | L’idea del contenere, l’urto, il vuoto. | Si allontana la madre, si confonde | lentamente col bordo delle cose. | È il vuoto, oppure il nome o l’obbedienza | che separa gli oggetti, che li doma | se sciolti dal contatto con la madre | rimangono nell’etere sospesi». - Il culmine tuttavia e la splendida originalità, che io sappia un unicum nello scenario dell’invenzione poetica italiana d’oggi, s’annuncia nel susseguirsi incalzante dei cinquantasei “sonetti” che scrutano, interpellano, ascoltano, compiangono stelle, pianeti, costellazioni, meteoriti, galassie, costellazioni, galassie, nebulose, particelle elementari vagabonde nelle plaghe sterminate dei cieli, talora sminuzzate in polvere e cenere natanti ai bordi del «non-essere» (p.66) nella terza sezione, Per le sfere celesti, citata. Si dispiega così, trepidante d’inquieto, febbrile indagare, un’ Odissea nello spazio- sit venia alla banale designazione filmica, poiché qui non vi è sentore di fantascienza – in cui, allo sguardo struggentemente proteso del poeta, si produce una vivificazione, una assidua reductio ad personam, umana così da stupire nella glaciale indifferenza cosmica, delle entità astrali ricorrenti o pellegrine nelle loro durate di lunghezza e «lentezza», vocabolo privilegiato da Giuntini, incommensurabili tra i vuoti spaziali così estesi da sfidare ogni immaginazione. L’ispirazione, nei monologhi, nei dialoghi, nelle esposizioni talvolta asettiche come brani di un trattato di astronomia, perché in quei casi non è il corpo o il fenomeno astrale a esprimersi, bensì l’incessante intervento della coscienza scientifica e filosofica dell’autore, è perennemente viva, nulla ha di prossimo a una catalogazione ornata e appesantita di riflessioni morali o di speculazioni artificiose, come l’avrebbe concepita, poniamo, un “mirifico” astronomo-astrologo del Seicento. Qui ogni figura celeste è “vissuta”; si offre quasi come un Erlenbis nutrito bensì di immediatezza nel moto della «mente» e del «cuore» - endiade frequente- ma con il filtro di una non ostentata conoscenza scientifica: tutto, però, si dice, si grida a tratti, o lascia custodito un suo sacrale silenzio; di fronte all’ansietà ricercante del poeta, v’è un’aura dove oscilla il dubbio – quanti «o no!»- e non celebra i suoi trionfi la prosopopea scientistica. Come misconoscere forza di sofferenza interiore e autenticità di impulso personalissimo anche nell’inserimento entro la lirica leopardiana, insieme del Canto di un pastore errante dell’Asia e dell’Infinito, la dove Giuntini (Luna, p.56 ) introduce a parlargli il nostro satellite: «Ho scelto te | per dare infine ascolto ad una voce |d’uomo, per quell’intenso, ripetuto | tuo gesto di guardarmi, per la luce che rifletti di me. Le tue pupille, | al vertice di un cono d’infinito, | ne trattengono immagini, il tuo cuore | resiste in un eclisse che non cede». E la consapevolezza, epistemologicamente affinata, dei limiti della mera scienza, trova eloquente dichiarazione in Quasar 3 C273 (ibidem): «Misuro | coordinate di origine e distanza || di stella che non c’è, di massa opaca | che si regge su calcoli, sostiene | se stessa su catena di equazioni. | Comprendo oppure no, se questa voce || che ha perduto l’immagine conferma | ipotesi e teorie, se non proviene da un abisso di me, da un altro modo || di ascoltare il mio battito...». Né la rivisitazione del mito classico della Via Lattea (p.42), una del resto tra le incalcolabili varianti immaginifiche create da ancestrali fantasie di popoli intenti a scrutare l’innumere scintillio di questa galassia, adotta movenze consuete, carnali come quelle dei pittori del Rinascimento, ma apre prospettive di vertigine: «qual nutrice, e di che sogno preda, | ha scordato nel cielo il suo tesoro, | a che labbra insaziabili sottratte | furono queste gocce d’infinito...». E il fulgore della bellezza rapita ai mortali dall’impeto grifagno dell’aquila di Zeus, in Ganimede (p.48) quale squallore deciso dai «fati» sopporta se «L’acqua e il vino, | il nettare e l’ambrosia ed altro ancora || promesso, nel silenzio si tramutano, | nell’enigma del ghiaccio...»? Tutto, in questi spazi interstellari d’umana e disumana astrazione, si frattura, si sfarina, si disperde nella Materia rada (p.51): «Non ti spieghi || che di quanto rimane | dell’evento | che sai, la maggior parte sia trascorsa | in polvere sospesa, abbia deciso || questa maniera d’essere; colmare | il silenzio dei sensi e penetrare | il vuoto, come un segno o una memoria». Inquieta, ansiosa peregrinazione interrogante per le incommensurate vertiginose plaghe dell’universo; assiduità indefettibile di un cosmico horror vacui che registra il vampeggiare e l’incenerimento, e sembra talora accompagnarsi ad arcane vibrazioni di “umana” tristezza (Shaula, p. 61): «Troveranno il mio corpo [...] spento [...] quale errore | si chiederanno, abbia potuto spegnere | l’orgoglio e poi lasciarmi freddo e vuoto». Ancora, un “brivido” è trasmesso dai Vortici neri (p.64); ma la Terra (p.54), che tanto gelosamente a noi umani è cara tra i corpi uranii, proclama un messaggio di estrema frustrazione: «Si farà | come d’incendio cenere il mio cuore, | mi sarà grato il gelo, il progressivo | rallentare del battito, il torpore | del mio corpo sfinito. A quale limite, | domando, possa giungere la notte, | mentre l’occhio di Dio si volge altrove». Poiché, in Zulen Elgenubi (p.68): «Una domanda | vaga in cerca di Dio, | forse altre mille | la inseguono»; e se Antares (p.67) constata con algida desolazione: «Di rado avverto | uno sguardo di Dio fissarmi, fino || a decifrare il senso della luce, | rassegnata obbedienza all’entropia, vana gloria di sé, grido, preghiera», tuttavia in Anni luce (p.69) con la «distanza» che non consente di «vederti» - di scorgere un astro come figura dell’amata, nell’indicibile transito all’altra dimensione?- sono superate anche le misure del tempo, se: «Spazia il presente | nello sguardo di Dio, le creature | scorre la lentezza della luce».
Ardue, forse a molti impervie traiettorie liriche su crinali perigliosi di tenebra e splendore, nella trepidazione di una fiducia che si alterna e si immedesima con lo spasimo della ricerca.
Data recensione: 01/02/2007
Testata Giornalistica: Humanitas
Autore: Giulio Colombi