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Il senso della misura, il recente libro del poeta fiorentino, è caratterizzato da una particolare difficoltà d’accesso che credo bene possa valere quale prova di iniziazione, superata la quale, acquisite almeno in parte delle chiavi per

Il senso della misura, il recente libro del poeta fiorentino, è caratterizzato da una particolare difficoltà d’accesso che credo bene possa valere quale prova di iniziazione, superata la quale, acquisite almeno in parte delle chiavi per accostarsi all’opera, ci si può disporre ad un’esperienza di lettura edificante e ricca: per così dire, una lettura secondo la misura del silenzio.L’opera, infatti, è una perentoria messa in discussione della possibilità di individuare, in un’esistenza apparentemente vana, un significato umanamente comprensibile, tale da motivarla e sostenerla.Il senso della misura afferma anche l’impossibilità della misurazione, annichilita dalla relativizzazione delle distanze: è il solo incedere dell’uomo a ritmare la scansione stessa dell’esistenza. Pertanto le distanze che, non rispondenti al principio di misurabilità, risultano per paradosso colmabili nell’ordine galattico delle grandezze, sono impercorribili in direzione del sospirato incontro con la cara voce mancante; probabilmente quella della donna amata, sicuramente di colei che mai più i versi potranno raggiungere, neppure ricercando strade nuove e inusitate, così come accade nel componimento Il battito del tempo: «Pensavo a una diversa partitura | del tempo quando scrissi per la prima | volta parole in versi. Meditavo | un messaggio per te, quasi una strada || nuova cercando al dialogo. Sapevo | o no che non avrebbe mai raggiunto | la meta, o troppo tardi per tornare | voce dei vivi. Adesso, quando scrivo, || non mi domando a chi, resto seduto | al trillo del telefono, lo lascio | morire, come lascio che la sera || si spenga senza un gemito. Pensavo | che il cuore non tenesse. Ora mi accorgo | che il battito del tempo è il primo a cedere».Non rimane che proiettarsi poeticamente nell’universo conosciuto, tra i pianeti e le stelle: dalla prossimità degli elementi sensibili e terrestri, fuoco, aria, acqua e terra, Giuntini risale vorticosamente fino a vagare per le sfere celesti, cercando di guardare, grazie al siderale e ascetico distacco, alla vita vana come a un gioco. Invito, questo, che il poeta sembra rivolgere, oltre che a sé stesso, al lettore, a giudicare da quanto si legge nell’epigrafe: «Di che discorre il segno della luna | coi numeri del tempo e quale cifra | per ricambiare auguri ed almanacchi | del possibile ed oltre, stare al gioco...».Sebbene non sia data risultante delle forze operanti nell’ambito dell’esistenza umana, la presenza tangibile di Thanatos e quella più aerea dell’Eros, riconducono in ambito freudiano ai conflitti psichici ed alla tensione originaria tra desiderio di vita e pulsione di morte. Morte alla quale Giuntini guarda sempre con religiosa serenità. È proprio la forte tensione spirituale che percorre i testi del poeta la chiave per comprendere questo cosmico viaggiare, il senso del tornare a battere del cuore, successivo alla sincope che in qualche modo disegna una diversa partitura del tempo.Tiene il cuore, che con variabile regolarità si ferma e riparte e contrappone, ai dolorosi arresti, la forza di un’immanente intensa spiritualità, un modo di avvertire Dio dentro e intorno a sé.Se la memoria non tiene ed i nomi non racchiudono l’essenza né tanto meno il segno, resta soltanto al possibilità di imprimere nero inchiostro su bianchi fogli, fuggendo alla gravità dell’esistenza, vivendo nella consapevolezza di un Tempo misero e inarrestabile, che tutto disperde; così in Molecole: «Il pensiero è friabile, disperde | schegge e frammenti, in polvere rovina. || Che limite sia dato alla materia | per frantumarsi e conservare il nome, | quale misura minima richieda | la struttura. Ad ogni dimensione | la materia può esplodere, svelare | altre pieghe dell’anima. Ciascuna | dimensione ha uno sguardo che l’attende || ma il pensiero è friabile, non tiene | e prima o poi si arrende, si sfarina.   In questi emblematici versi, il poeta evidenzia come alla provvisorietà della memoria corrisponda una instabilità del pensiero, ponendo pertanto una domanda fondativa sulla nomenclatura stessa. L’arbitrio con cui ciascun nome è messo in relazione ad un segno, rende manifesto, quasi moderna allegoria dell’incomunicabilità, come sia impossibile racchiudere nel nome la sostanza e in esso prevederne il mutamento.Inoltre Giuntini sembra condividere il pensiero agostiniano per il quale l’uomo non può comprendere Dio, ma soltanto rifugiarsi nella fede in lui. Il poeta del resto non si esime dal disegnare l’impasse nei termini di un «vortice nero», un punto di opacizzazione del senso, forza che tutto ingloba e disperde, condizione in qualche modo espressa dal silenzio che spesso è presente nell’opera quasi come intercapedine stellare. In Vortice nero si legge: «Lascio impronte in un’algebra, la cifra | dell’assenza risolve l’equazione. | Chi ha lavorato ai calcoli, si è reso | conto del mio non esserci e di quanto || il peso del silenzio non sia vano. | Nutro un corpo di tenebra, si perde, | nel mio spazio la strada di ogni luce, | nella memoria il senso. Lascio impronte, || come un avvertimento o un desiderio | di affacciarsi e non farsi trascinare | come un arduo resistere. Trasmetto || un brivido e riprendo l’indicibile | storia della mia lenta contrazione. | Comprimo la tua immagine, il tuo fato». Tutto ciò che rimane, di fronte al mutamento delle forme e alla disgregazione della materia, sembra essere una debole energia che pure perennemente alimenta il fuoco (espressione immediata e sensibile dell’energia in cui si identificano la luce e il calore):«Forma e sostanza, sfida per i sensi | la misura del fuoco, il farsi vana | la durezza del calcolo».Tale energia implode in maniera definitiva, incorrendo nell’orizzonte degli eventi , come scientificamente è definito il confine di forma sferica che circonda il «vortice nero». Arrivando fino al suo centro ci troviamo davanti a una singolarità, ovvero in una regione in cui vengono meno le leggi della fisica e da cui si sarebbe originato il mondo: è indicativo il fatto che si possa entrare  nel buco nero, ma in  nessun modo sia possibile uscirne. Pertanto esso, dice il poeta, comprime l’immagine e racchiude il fato del mondo. Nel vortice si perde ogni luce, nonostante esso raccolga in sé il destino del mondo e ne comprima l’immagine. È di conseguenza inaccessibile all’uomo la Verità che esso racchiude e forse come guardiano del Tempo custodisce concetti in qualche modo espressi in Proxima Centauri: « Quale salvezza, in questo spazio rado | di pulviscolo. Quale dannazione | segnare rotte estreme del pensiero | e strenui fuochi accendere sul nulla || che lo sguardo percorre palmo a palmo | e misura in pazienza. Del confine | ultimo, null’altro riuscirebbe | a resistere, null’altro che il fuoco, || a parlare alla polvere e allo spazio, | a parlare con Dio. Resiste il fuoco | ma non rivela quanto di memoria || del principio rimanga nel suo seno, | quanta cenere attorno a quale grido | abbia disperso invano l’esplosione».In conclusione, e a conferma della costruzione labirintica del testo, facendo riferimento al primo dei componimenti raccolti: all’uomo, la cui ambiziosa ricerca d’accesso alla verità – nell’episodio biblico di Babele- è stata significativamente punita attraverso la frammentazione del linguaggio, non è dato appressarsi a Dio. Al suo cospetto resiste soltanto il fuoco che, come nell’omonima poesia, rinnova nell’uomo la memoria del suo oltraggio «anche al di là dell’ora del perdono». «Le dita del bambino, che attraversano| la fiammella del cero, | si salveranno o no, rimane intatta | la memoria del fuoco e non è certo | che rinnovi il perdono. || Forma e sostanza, sfida per i sensi | la misura del fuoco, il farsi vana | la durezza del calcolo. || Flutti e cenere, spazi ed atmosfere, | la crosta della terra. Che confine | altro che l’indicibile, che luoghi | per soffermarsi, stringere una tregua. || Le fiammelle dei ceri, che attraversano | le dita dei bambini, | si salveranno o no, rimane intatta | la memoria dei piccoli e resiste | anche al di là l’ora del perdono».
Data recensione: 21/03/2007
Testata Giornalistica: Erba d’Arno
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