chiudi

Il Libro del Chiodo è un manoscritto conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, così chiamato a causa dei chiodi di ferro posti sui piatti lignei della legatura, ormai non più visibili eccetto uno, in cui si trovano le liste dei nomi

Il Libro del Chiodo è un manoscritto conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze, così chiamato a causa dei chiodi di ferro posti sui piatti lignei della legatura, ormai non più visibili eccetto uno, in cui si trovano  le liste dei nomi di condannati alla perdita dei diritti civili, della libertà o della vita, a volte perché reali criminali, talora per motivi assolutamente politici.I chiodi caratterizzavano il manoscritto anche esteriormente poiché rivelavano l’odio di chi lo aveva voluto e la condizione di chi lo subiva, perciò detti “gli inchiodati”. La sua fortuna è, inoltre, legata ad un nome che in esso compare: Dante Alighieri.L’importanza della pubblicazione in esame è testimoniata dalla cura con cui essa è stata realizzata, grazie anche al confluire di diverse “volontà”, tese a collaborare in modo fattivo per poter consentire la fruizione di tale prodotto, appunto l’Archivio di Stato di Firenze e l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze.Ma non manca neppure il contributo, attraverso le loro pubblicazioni o con i loro suggerimenti, di significativi studiosi come Francesco Adorno, Riccardo Fubini e Silio P.P. Scalfati.Il volume si articola in una Premessa di Alberto Carmi, Presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze il quale, dopo aver ricordato l’ultima occasione in cui il Libro poté essere visto, esprime i sentimenti provati da chi in quel “registro criminale”, leggeva il nome del sommo poeta, Dante Alighieri, e comprendeva le infinite sofferenze che quel libro gli aveva procurato. Viene ricordato il rigore scientifico con cui la curatrice, Francesca Klein, ha condotto l’edizione critica ed esaltata, infine, l’alta fattura del volume ed il fascino che esso emana, pur essendo una clonazione o meglio una riproduzione dell’originale, cui si è giunti, anche grazie all’uso delle moderne tecnologie, ma che soddisfa, comunque, il desiderio di chi ancora gioisce nel toccare e sfogliare un libro.Segue una Presentazione della Direttrice dell’Archivio di Stato di Firenze, Rosaria Manno Tolu, che definisce il Libro del Chiodo «uno dei cimeli più noti, conservati dall’Archivio di Stato di Firenze, fonte storica di straordinario interesse ...».L’Introduzione è affidata a Riccardo Fubini (Università degli Studi di Firenze), evidenzia l’importanza della tradizione in ogni documento storico e, a maggior ragione, per il Libro del Chiodo, il registro delle proscrizioni di ghibellini e guelfi “bianchi”, equiparati, e forse per questo confusi dal nostro Ugo Foscolo che vide in Dante “il ghibellin fuggiasco”.Quest’ultimo vi appare sotto l’accusa di “baratteria”, imputazione, insieme ad altre, che nascondeva accuse assolutamente politiche, come dimostra proprio il nostro codice. Dunque, baratteria significava (per il gruppo dirigente) “uso proditorio del potere” durante l’ufficio assegnato e diventava l’accusa più idonea per “eliminare” i nemici, eco e riminiscenza delle liste di proscrizione di età classica, che consentirono ad Antonio di far uscire definitivamente dalla scena politica un personaggio “scomodo” quale fu Cicerone. Per quest’ultimo la morte fisica, per Dante ed isuoi compagni, la morte sociale e civile.Sì, perché questo dimostra il Libro, attraverso la sua tradizione o meglio, come afferma Fubini, attraverso la clausola formulare che conclude le sentenze, secondo cui, se anche i condannati avessero pagato quanto loro imposto, comunque sarebbero stati inibiti dal ricoprire ulteriori incarichi o uffici, e non soltanto loro, ma anche i discendenti.Ma perché fu realizzato questo libro? Secondo R. Davidsohn perché i Guelfi, dopo la vittoria sui Ghibellini, avevano creato un elenco di indesiderati, ma non vollero utilizzare un testo già esistente, il Libro degli esiliati, nel quale comparivano essi stessi!Ma perchè tali liste? Secondo F. Klein e lo stesso R. Fubini, perchè il libro rappresentava un tentativo, al pari delle liste dei “magnati”, di creare equilibri nella classe dirigente e di determinare criteri per l’assegnazione degli uffici. Quindi esso rappresentò l’estremo tentativo della Parte Guelfa di contrastare con le stesse armi l’avanzata della politica comunale, che aveva i suoi punti di forza nel Priorato delle Arti e del Gonfaloniere di Giustizia, nonché negli stessi Ordinamenti di Giustizia, che tanto l’avevano penalizzata, sebbene mai veramente posti in atto.Tutto ciò che Fubini sintetizza ed anticipa, viene analizzato ed ampiamente riferito dalla stessa curatrice dell’edizione critica, Francesca Klein, la quale comincia con il presentarci il codice: formato reale, assi rivestite di cuoio, chiodi minacciosi, di cui solo uno superstite, impressi sui piatti, anteriore e posteriore, della coperta. Contenuto: liste dei nomi di ghibellini e guelfi bianchi (equiparati) colpevoli di essersi liberati al Comune e per questo esclusi ad oltranza dagli uffici.Dunque, tale libro serviva per “inchiodare” quella parte della società di Firenze (Priori in primis!) che rendeva sempre più insicuro il potere della parte guelfa. Era un monito, uno strumento politico, un simbolo dell’odio finalmente manifestato dai Guelfi ritornati al potere.Ma la curatrice rivela i punti oscuri dell’analisi fin lì condotta da latri: le circostanze della redazione cioè la datazione, gli autori, gli estensori, il contesto, il suo significato documentario, e andando oltre cerca di spiegare, come ella li definisce, i “pieni” (le liste dei condannati) e i “vuoti” (cancellature, rasure, omissioni) sintomatici di un clima politico fatto di esclusioni, compromessi e riabilitazioni. Il Libro si presenta come i libri iurium cioè registrazioni di atti distinti, in copia e originali, alcuni dei quali presenti in altri codici. Francesca Klein ha riempito un “vuoto” trascurato da altri, ritenendo indispensabile un corretto esame diplomatistico e archivistico, e ha deciso di confrontare i diversi esemplari.Si tratta di due testimoni appartenenti ad Archivi pubblici: il primo, il codice Capitani di parte, Numeri Rossi, 21, fa parte dello stesso fondo del Libro del Chiodo, che reca la segnatura Capitani di parte, Numeri Rossi, 20; esso contiene liste di ghibellini proscritti, liste dei fautori di Arrigo VII, provvisioni, la sentenza dell’imperatore Arrigo VII e diverse sentenze di condanna. L’altro fa parte della serie Capitoli, Registri dell’Archivio delle Riformagioni con la segnatura Capitoli, Registri, 19 A; contiene le sentenze contro i guelfi bianchi, le liste dei ghibellini proscritti, la memoria di alcune ambascerie, alcune carte bianche etc.Sia la forma sia il contenuto dei tre codici non possono dirsi identici. Considerando la provenienza, viene rilevato che i due testi Capitani di Parte provengono dalla Parte guelfa; il terzo, invece, dalla Cancelleria delle Riformagioni, ufficio legato al Priorato, che nel Trecento assunse una crescente posizione come istituzione archivistica comunale, soprattutto dopo l’incendio della Camera degli atti nel 1343. F. Klein dimostra, dunque, che i tre codici manifestano soggetti e volontà giuridiche diverse o meglio “di parte”.Segue una descrizione degli eventi storici relativi al conflitto tra Guelfi e Ghibellini, evidentemente due “partiti” opposti che lottavano per la conquista del potere, ma di eguale estrazione sociale. Infatti l’unica vera nuova componente sociale fu, tra il XIII e XIV secolo, il ceto mercantile imprenditoriale, a capo del popolo delle Arti, pronto a schierarsi con i “vincitori”, i Guelfi, con propri organismi per l’ascesa al potere come furono il Consiglio del Capitano del popolo ed il Priorato.Strumento di questa forza nascente furono anche gli Ordinamenti di giustizia, attraverso cui la nuova classe cercò di eliminare i vecchi privilegi dei nobili, soprattutto con l’ideologia antimagnatizia, che divenne un modo per allontanare gli indesiderati.Ma i Guelfi non rimasero inerti e usarono il termine “ghibellino” per contrastare i popolari, ma anche tutti coloro che li ostacolavano.È chiaro che le forze realmente in conflitto, sebbene apparentemente vicine, alla metà del Trecento, erano i Guelfi e le Arti o meglio il priorato. Dunque, non è più possibile utilizzare le consuete contrapposizioni tra guelfi e ghibellini o ancor atra guelfi bianchi e neri, pensando che i loro conflitti nascono da precise ideologie politiche a noi ben note.Il saggio introduttivo ci fa riflettere sulle nuove (o forse vecchie?) dinamiche di potere che spiegano come sia possibile che Dante, forse nobile, sicuramente guelfo (seppur bianco!) si scagli contro “la gente nuova e i subiti guadagni”, contro quel ceto mercantile che contrasta un mondo che il nostro condivide, ma nello stesso tempo si iscriva ad una corporazione e ottenga la più grande carica cittadina, il Priorato, magistratura assolutamente legata alla  “gente nova”!Concluso questo breve, ma interessante riepilogo, la curatrice affronta il problema della datazione dei codici. L’analisi diplomatistica ed archivistica conduce a ritenere che il primo testo prodotto sia Capitani di parte, Numeri rossi, 21, di parte guelfa; esso presenta un ordine sicuramente diverso rispetto all’originario e risulta essere stato completato alcuni decenni dopo rispetto ai primi documenti che contiene (data presunta 1347). Il secondo codice, in ordine di tempo, è Capitoli, Registri, 19 A, di ben diversa provenienza, come già evidenziato, successivo, secondo rigorose analisi della curatrice, al 1348, forse risalente al 1354, periodo in cui il Priorato ed il Gonfaloniere di giustizia riuscirono ad acquisire, nei confronti della parte guelfa, grande supremazia.Questi primi due codici già mostrano delle significative diversità: il primo presenta i nomi in latino, il secondo in volgare; alcuni nomi omessi nel primo, sono presenti nel secondo. Ancora più rilevante sembra essere il posto che viene dato alla lista dei proscritti o meglio la priorità: il primo, di parte guelfa, comincia con l’elenco dei ghibellini; il secondo, emanazione della volontà del popolo delle Arti, antepone a questo le condanne dei guelfi bianchi; ma di sicuro interesse sono le cancellature, i depennamenti, le rasure e le omissioni (i cosiddetti “vuoti” di cui parla la curatrice!), prove di un mutato clima politico, di eventuali selezioni e riabilitazioni.Ultimo sembra essere il Libro del Chiodo il quale dall’analisi mostra di essere copia del codice Capitoli; Registri, 19 A, dipendente dalla Cancelleria delle Riformagioni; esso contiene anche la copia della provvisione di Baldo d’Aguglione con la quale nel 1311, mentre si attendeva l’arrivo di Arrigo VII, si stabiliva un’amnistia generale che coinvolgeva guelfi, magnati e popolari, eccetto una lista tra cui continuava a figurare il nome di Dante.Il nostro Libro evidenzia, però, una lista in cui molti nomi furono cassati, forse per sopraggiunti accordi tra il Priorato e Parte guelfa.Le carte fin qui analizzate (1-149) rivelano una struttura rigida, in cui alla fine di quasi tutti i quaderni viene posta la prima parola del successivo quaderno. F. Klein ha identificato la mano di uno dei notai, grazie ad un riscontro paleografico, e essa risulta essere quella di Giovanni di Buto Compagni di Figline.Tale notaio non si trova tra quelli della Parte, ma ebbe l’incarico forse dai Capitani di parte. Il suo luogo di origine fa riflettere, in quanto Figline era un castello ghibellino su cui la Firenze guelfa aveva imposto il proprio dominio soltanto nella metà del XIII secolo. Inoltre il nostro notaio non sembra partecipi dell’ideologia propria dei guelfi più rigorosi. Segue nella copiatura la lezione dei Capitoli, sebbene emergano le sue personali caratteristiche espressive e professionali (egli, infatti, non opera in una Cancelleria e rivela un formulario meno tipico).Un’ulteriore analisi rivela la mancanza di almeno un quaderno, omissione, secondo Klein, avvenuta “in corso d’opera”, che tenderebbe a evidenziare un controllo ed una revisione sull’operato del notaio da parte di Istituzioni esterne (Priorato?), Addirittura l’intera pagina 150 è stata rasa, eliminando un intero atto su cui la curatrice si riserva di effettuare ulteriori analisi. Notaio e committenti vollero certamente dare al registro in esame una veste curata e caratteri stabili “che ne garantissero una autonoma autorevolezza documentaria”.Resta da chiarire la datazione per la quale viene proposto il 1358, almeno come termine ante quem, poiché  a pagina 151 si trova la copia autentica di un atto del 1271, avvenuta proprio nell’anno 1358, al quale inoltre risale una provvisione antighibellina, in cui si stabiliva che coloro che avessero prestato giuramento alla Parte, non potessero per i successivi quindici anni essere eletti agli uffici propri del popolo delle Arti (Priore, Gonfaloniere, Capitano).A tale provocazione i guelfi risposero con l’”ammonizione”, definita da Brucker “brillante” strumento per allontanare dalla vita pubblica gli esponenti a loro sgraditi. In tale contesto il Libro del chiodo offrì la documentazione necessaria per le ammonizioni come, secondo Klein, sembrano dimostrare dei segni posti ai margini dei nominativi, assolutamente assenti in Capitani di parte, Numeri rossi, 21. Un’ultima strana, ma sicuramente interessante informazione viene evidenziata alla fine di questo saggio: nella conclusione del Libro appare la trascrizione di una condanna, quella di Lapo da Castigliocchio!Ma chi era costui? Capeggiò la parte più intransigente dei Guelfi, ottenendo che per l’ammonizione fosse semplicemente registrato il nome del sospetto «in aliquo ex libris dicte partis».Dunque, chi di spada ferisce, di spada perisce! Ma il suo nome nella lista, è segno di un mutato momento storico (tumulto dei Ciompi 1378) in cui le nuove alleanze posero Lapo in odio non solo del popolo delle Arti, ma anche della sua stessa parte. Solo nel 1382, con una nuova amnistia, venne effettuata la rasura del suo nome che la storia avrebbe taciuto se non fosse stato fatto riemergere dalle nuove tecnologie, consentendoci una più chiara lettura degli eventi, che il saggio introduttivo di Klein, che precede l’edizione critica, ci fa rivivere, rivelandoci dinamiche e situazioni, forse per alcuni già note. Ma sia il modo rigoroso e scientifico, attraverso cui ella giunge  ad alcune affermazioni o ipotesi, sia il sottile e minuzioso lavoro diplomatistico, paleografico ed archivistico condotto, le rendono solide e quasi come in un puzzle, sembrano trovare la loro collocazione.Il volume è, inoltre, ricco di note che spesso meritavano una significativa posizione nel testo.Segue la trascrizione dei documenti, previo un regesto che li presenta e descrive, non trascurando i riferimenti agli altri due codici analizzati e confrontati.La curatrice avverte di aver seguito i criteri di edizione codificati dall’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, ma effettuando degli adattamenti, che vengono evidenziati, laddove lo ha ritenuto necessario.Il libro è ben supportato da indici finali dei nomi, in versione originale, ma anche con le eventuali varianti.Assolutamente elegante la fattura esteriore e ben eseguite le riproduzioni dei documenti che consentono al lettore la fruizione a distanza di un esemplare che, a ragione, viene conservato dall’Archivio di Stato di Firenze con le attenzioni riservate alle più importanti opere della nostra cultura.
Data recensione: 01/01/2006
Testata Giornalistica: Schede Medievali
Autore: Carolina Miceli