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Non mi soffermerò sull’endecasillabo, sul verso libero e sulla rima alternata che percorrono “La fontana d’acciaio”, la raccolta di poesie di Michele Brancale (edizioni Polistampa), giornalista di

Non mi soffermerò sull’endecasillabo, sul verso libero e sulla rima alternata che percorrono “La fontana d’acciaio”, la raccolta di poesie di Michele Brancale (edizioni Polistampa), giornalista di origini lucane che da anni vive e lavora a Firenze. Protagoniste di questi piccolo libro prezioso sono le emozioni che sa suscitare. Per Rilke non c’è che un mezzo per scrivere poesia: guardare dentro di sé e descrivere tutto con intima umile sincerità, usando per esprimersi le cose che stanno intorno, le immagini dei nostri sogni e gli oggetti del nostro ricordo. Da questo tuffo nel suo mondo interiore Brancale trae schegge di vita che hanno un suono dolce e coinvolgente. Le esperienze umane degli affetti e dei sentimenti non si ripetono monotone e senza novità, ognuna di esse porta agli altri qualcosa, ancor di più se espressa con una voce poetica come questa, che diviene subito familiare e cara. Sintesi di poesie scritte nell’arco di venti anni, la raccolta si articola in cinque diversi momenti (Dalla stanza, La fontana di Azzàro, All’esistente-inesistente, Ritorno a casa, Arrivederci), istantanee scattate lungo un percorso intimo e personale, intriso di profonda autentica religiosità.
La prima parte, Dalla Stanza, è l’inizio di un viaggio non solo interiore che porta l’autore al paese natale adagiato sulle crete lucane, alla ricerca delle tracce di antichi legami per interpretare assenze e dissipare il vuoto lasciato dalla scomparsa del padre (“che morde la vita ad ogni passo”), avvenuta troppo presto quando l’autore era ancora bambino. “Concavo uscivo e ripiegato dallo sforzo di rimpiangerlo” scrive Brancale, ma il viaggio lo aiuta a sostenere la tristezza con serenità e la poesia è calibratissima, piena di freschezza, sorride nonostante l’intenso spleen. Stanza come luogo dell’ascolto e dell’accoglienza, dove risuona la quiete degli oggetti cari che “non parlano ma sanno parlare”. Un minareto che serra in sé la storia e il segreto di chi l’abita, dove le cose sono illuminate e “si accende la pupilla negli occhi dei volti amati e pensati”. Ma l’esterno chiama ad altra sorte, ad altro respiro e l’autore si avvia “con sentimenti disarmati” verso un passato che gli offrirà il dono di guardare presente e futuro con altri occhi. Così quella fontana d’acciaio, Azzàro in dialetto, che a Brancale bambino sembrava gigantesca e che ora invece gli appare nelle sue reali contenute dimensioni. La fontana come metafora della vita e della celebrazione della memoria. Il libro si chiude con Arrivederci, un commiato musicale che sia promessa di riascoltare presto questa voce sommessa e tersa, di grande forza evocativa.
Data recensione: 04/08/2007
Testata Giornalistica: Il Giornale della Toscana
Autore: Silvia Lagorio