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Il sostantivo “poeta” va usato con estrema cautela, in un’Italia contemporanea affollata di studenti che accumulano manoscritti di versi sciolti alla meno peggio e piccole

Il sostantivo "poeta" va usato con estrema cautela, in un’Italia contemporanea affollata di studenti che accumulano manoscritti di versi sciolti alla meno peggio e piccole case editrici pronte a trasformare in business la sete di esordio letterario ormai trasversale alle categorie professionali più disparate. Di libri di poesia questo Paese abbonda, ma ci vuole proprio fortuna ad incontrare un autore per il quale l’appellativo di poeta non suoni come un abuso. E’ da anni che non si legge una raccolta di versi raffinata, intrigante e rigorosa come "La fontana d’acciaio" di Michele Brancale (Polistampa, 2007), scritto che costituisce una risposta autorevole a chiunque nutra dubbi sulle reali possibilità immaginifiche della poesia nell’era postmoderna. Nelle 69 pagine che compongono il libro, la Poesia si respira. Tanto per cominciare il 41enne Brancale, lucano di origine e fiorentino di adozione, è padrone delle tecniche di versificazione. Non ha alcun timore a confrontarsi con forme canoniche della produzione poetica italiana come la "stanza" (si veda, appunto, la sezione "Dalla stanza") e quando usa il verso sciolto non rinuncia ad un senso della musicalità probabilmente mediato da una ideale tradizione che parte dall’Ermetismo e arriva a Giorgio Caproni. Anche la strofa più classica acquista in mano a lui nuova vitalità: i versi di Brancale scivolano leggeri sotto gli occhi del lettore che, preso da quello che a tutti gli effetti gli è posto come un racconto, a un primo sguardo neanche fa troppo caso alla pure precisissima struttura metrica che sorregge l’opera. L’autore fa sapere di avere tra i propri modelli il grande Rocco Scotellaro ma, almeno in fatto di stile, con la sua cristallina asciuttezza sembra più vicino alla poesia toscana che alle ruvide rappresentazioni della Basilicata rurale care al poeta di "E’ fatto giorno". Se si guarda ai contenuti, Brancale è un intimista capace come pochi di trovare nel mondo circostante i segni di quello che i teorici del Romanticismo chiamavano il "Paesaggio sentimentale". Un paio di secoli fa, probabilmente, qualcuno avrebbe usato a proposito il termine "Idillio", nel senso di "piccola visione" poetica. Da ogni verso affiora sempre un’inquietudine. Nel trentaduesimo componimento "Dalla stanza", si legge per esempio: «Il tempo trascorso mi fa smaniare./ Cerco la sponda del riposo, l’onda/ della dissolvenza, il sonno che affonda». La sezione "La fontana di Azzàro" vale quanto una passeggiata in un mondo che forse ci appartenne ma che, oggi, appare irrimediabilmente perduto come una foto d’infanzia sbiadita. Le "Quattro stagioni" di Brancale si chiudono con due versi densi di turbamento: «La pioggia arrivò così; piegò i fiori nel pantano». "La fontana d’acciaio", al di sopra di tutto, è un libro che emoziona, un’opera in cui la "forma" non è un optional ma struttura rigorosa attraverso la quale si esprime la sostanza. Cominci a leggerlo per caso e ti accorgi che ci hai trascorso sopra un giorno intero, che qualcosa di significativo ti ha lasciato. «Ma – per citare i versi finali dell’opera – quella melodia si è alzata e va via, si attenua, così leggera, nell’aria».
Data recensione: 02/08/2007
Testata Giornalistica: Il Sole 24 Ore Online
Autore: Francesco Prisco