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Conosco da qualche tempo Michele Brancale. Persona di intelligenza singolare che unisce a un’indole pacata, ma non remissiva, una saggia sobrietà nel parlare. Parole misurate, le sue, mai ridondanti, e per questo efficaci e incisive, sia

Conosco da qualche tempo Michele Brancale. Persona di intelligenza singolare che unisce a un’indole pacata, ma non remissiva, una saggia sobrietà nel parlare. Parole misurate, le sue, mai ridondanti, e per questo efficaci e incisive, sia nel colloquio che nello scrivere, perché il suo mestiere è quello del giornalista.
Mi ha dunque incuriosito e colpito l’uscita di un suo libro di poesie: La fontana d’acciaio, libro di una settantina di pagine. La lettura si è rivelata non facile, ma affascinante, perché Michele usa la parola in modo raffinato e elegante, con un’intensità semantica pregevole e rara che ti trasporta in un mondo segreto di emozioni e sensazioni. Il leit motiv dell’opera è una sottile, serena malinconia, che oscilla tra la tristezza di una solitudine quieta e il sorriso innocente che rasserena l’anima nella scoperta del senso delle piccole cose.
Il libro si compone di cinque capitoli, come percorso di una personale iniziazione interiore della quale non si conosce ancora l’esito.
Il primo e più lungo si intitola Dalla stanza ed è permeato da una vena di silenziosa malinconia, da un pessimismo tenue che sembra attrarre la speranza. La fatica dell’esistenza si dipana nella ricerca del senso delle cose, aggrappandosi con le unghie a una speranza che, unica, rischiara il colore grigio della quotidianità:

Mentre tu - austero? -
puoi provare a cambiare in meglio tutto,
l’andato a male, l’amore distrutto...

L’alba del giorno dopo, quando arriva,
prima che la vita esploda, fa aprire la porta, salvando dalla deriva,
rinnovando il miracolo...

La poesia di Michele indaga le profondità dell’esistere, sotto lo sguardo o il soffio di un cielo enigmatico, "velo che copre, che assedia/l’autenticità".
Svela la paura che l’esistenza scivoli nell’uguale dei giorni. Ma l’oppressione e la tentazione indulgente del pessimismo si stemperano nell’attesa della luce che arriverà:

Aspetto con l’ansia di chi aspetta ore
senza vedere nessuno...

Così l’anima si rasserena nello stupore infantile cha accoglie la vita:

... sorpreso, ligio
all’attesa della neve, che esce,
benedizione su vite rapprese.

Il germoglio cambia parere, accoglie.

Nel secondo capitolo, La fontana di Azzàro, l’accoglienza si manifesta come serena contemplazione delle cose, delle persone e della natura, con un sentimento intenso di coinvolgimento e di compresenza dell’io nel tutto:

e intento lì, sorrido, contento.

La sera porta deboli
luci e scale e portoni
[...]
la sua voce ha il potere cortese
di sciogliere la forza
delle solitudini.
Splende alta la luna
delle piccole cose.

Così nei tre capitoli successivi, All’esistente-inesistente, Ritorno a casa e Arrivederci, l’introversione e la contemplazione solitaria stemperano la tenue malinconia in una quiete serena, mentre l’ineluttabilità dello scorrere del tempo incalza fra memoria e sogno, in una pacata rassegnazione:

Possa anche lì l’impronta dell’eterno
non disperdere in nulla le premure
dell’affetto, portare le esperienze
come sale alla tavola.

Vedo questo libro prezioso, come una sorta di personale iniziazione, nella quale la malinconia della prima stanza corrisponde all’alchemica nigredo, la dissoluzione di sé nella prima fase dell’alchimia interiore, intensamente evocata da Durer nella sua Melancolia. I successivi capitoli mostrano la luce dell’albedo, l’opera al bianco, nella quale lo spirito alchemico risorge dall’ombra oscura della morte delle proprie certezze. Ma non trovo un capitolo che corrisponda all’opera al rosso, la rubedo, quando lo spirito si sublima nella quintessenza e l’oro interiore si manifesta in tutto il suo splendore. CAro Michele, attendo dunque, quando sarai pronto, un’altra fatica. 
Data recensione: 01/09/2007
Testata Giornalistica: Il Governo delle Cose
Autore: Renzo Manetti