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Non dimenticherò mai quella sera al cinema Universale in via Pisana. Quella sera, ai primi degli anni ’80, quella sera che ci andai con la Paola, la ragazza che avevo sposato nel settembre del ’62. Ce l’avevano detto Giovanni e Simone,

Rievocata in un libro la leggenda del celebre cinema di OltrarnoNon dimenticherò mai quella sera al cinema Universale in via Pisana. Quella sera, ai primi degli anni ’80, quella sera che ci andai con la Paola, la ragazza che avevo sposato nel settembre del ’62. Ce l’avevano detto Giovanni e Simone, i figlioli ormai giovanotti, ventenni o quasi: «Andateci all’Universale, è uno spettacolo davvero». Avemmo subito la sensazione di essere fuori età e pensate che io e la Paola si aveva quarant’anni o poco più. Il pubblico che riempiva il cinema era tutto di giovani sotto i trenta anni, prevalentemente maschile. Il fumo impestava il locale al punto da toglierti il fiato, un fumo inconfondibilmente dolciastro, che appena si spensero le luci, lo vedevi muoversi con le sue lenti spirali all’interno del fascio di luce che si proiettava sullo schermo, nel buio pieno della sala. 1941 Allarme a Hollywood era cominciato. Non ricordo bene l’inizio, ma l’eroe tardava ad entrare in scena e in sala cresceva l’attesa. Quando l’aeroplano, uno strano apparecchio, un caccia, quasi un incrocio tra la prima e la seconda guerra mondiale, atterrò senza garbo alcuno in quella specie di aeroporto e, apertasi la carlinga, scese il pilota con la sua andatura oscillante e maldestra, il casco di pelle con il sottogola sciolto, gli occhialoni, il sigaro a un lato della bocca che si allargò nel suo inconfondibile sorriso, venne giù tutto. Questo era John Belushi per loro. E questo diventò John Belushi anche per noi. Il boato da curva Fiesole e il battito di piedi che fece tremare la sala significava che era scattata la molla dell’identificazione collettiva con l’eroe che li rappreserntava tutti. L’eroe di Animal house che si schiacciava le lattine sulla fronte e che insieme a Dan Akroyd folleggiava nei Blues Brothers trascinando tutti dentro quel fiume di musica rhythm and blues inseguiti dalla polizia di tutti gli States, la stessa che ogni tanto arrivava anche lì, fuori o addirittura dentro al cinema. Nell’esplosione di quella sera per l’eroe di coloro che furono giovani allora c’è tutta la storia di quella Firenze, di quella parte d’Oltrarno che sta tra San Frediano e l’Isolotto. Una storia fatta di storie che negli anni ho sentito raccontare dai miei figli e dagli amici dei miei figli, fino alla narrazione di Matteo Poggi ne La breve storia del Cinema Universale (edizioni Polistampa) dal sapore un po’ pratoliniano. Cinema Universale c’era scritto sul cartello arancione dell’ATAF. Il cinema era proprio lì alla fermata del 6, in via Pisana, di fronte al bar del Circolo Potente, il leggendario comandante partigiano nato e cresciuto nelle strade del Pignone. Graziella, la cassiera, era la moglie del Bracciotti, il proprietario, che era anche il vicesindaco del di Sesto Fiorentino. Romanone era la maschera. Aveva giocato nei bianchi o nei rossi, non ricordo. Romanone: il gigante buono che ogni tanto si incazzava e alzava di peso qualche ragazzaccio quando il cinema intero avviava il coro ... «Com’è la moglie della maschera?» «Maiala!» « ... e la maschera?» «Becco!». E poi il Masini, il proiezionista che ogni tanto entrava in conflitto con il pubblico, abbassava l’audio, accendeva le luci o addirittura in casi eccezionali fermava film. Come quella volta che in sala entrò uno con la vespa, si fermò a metà giro, tra gli applausi, i fischi e le grida di entusiasmo, salutò con due o tre sgassate e se ne andò, così come era venuto. O come quando arrivò un poliziotto che esibì il suo tesserino e chiese in mezzo alla sala chi era che si drogava e tutti risposero «io... io ... io ...». La sala poteva contenere al massimo trecento persone ed era sempre piena. Lo schermo qua e là era sgorato per via delle lattine di birra o di altro che gli spettatori lanciavano abitualmente fregandosene del cartello che invitava a non portarle in sala, ma che il bar del cine vendeva senza tregua. C’era anche la galleria, una pedana di legno alta un metro o giù di lì, che rimbombava quando il pubblico batteva i piedi e che permetteva a quelli che sedevano di sopra di buttare giù in platea quello che capitava, provocando reazioni a volte pesanti ma sempre autogestite. La pedana fu tolta quando la gatta ci cominciò a fare i gattini e a tenerli proprio lì sotto. Lo spettacolo vero era il pubblico becero e maleducato, geniale e creativo, volgare e allo stesso tempo colto, in maggioranza di studenti e prevalentemente maschile, dove andarci con una donna era da temerari. Era quello il luogo dove una generazione di giovani maschi disorientata e stravolta dal femminismo si difendeva rifugiandosi nelle battute più scurrili e nei versi più sguaiati, uscendone a tarda sera appagati e quasi purificati da quelle oscenità condivise, da quelle risse improvvise, da quelle trovate trasgressive. Come quella sera che si proiettava “Ultimo tango a Parigi” e Marlon Brando, imburrato a dovere il didietro di Maria Schneider, si preparava a recitare il celebre discorso sulla famiglia. “Abburracciugagnene”disse uno nel buio e tutta la sala lo ripeté quella sera e negli anni a venire. L’autore rimase ignoto come spesso accadeva per i detti che diventarono famosi. E poi la strana mescolanza di sport e politica che veniva fuori da quelli che vivevano allo stesso modo gli scontri con la polizia nelle piazze del ’77 e le risse fuori e dentro lo stadio. Il nemico era sempre lo stesso: il capitalismo, Agnelli e la Juve. Il film che celebrava questo sentimento diffuso era “Fuga per la vittoria” proiettato chissà quante volte e che era vissuto come il copione di una recita collettiva. La squadra dei nazisti aveva una divisa bianca e nera e questo rendeva meglio l’identificazione. Quando l’arbitro assegnava loro un rigore inesistente esplodeva l’urlo straziante «... ladri ... ladri ... ladri» e quando il leggendario Pelè segnava il goal della vittoria finale per la squadra dei prigionieri, veniva giù il cinema. Era il 1983: la Fiorentina era stata derubata del suo terzo scudetto e la ferita sanguinava ancora. L’odio per la Juventus raccolse quello che due generazioni di fiorentini avevano accumulato contro gli Agnelli e il capitalismo nel corso dei movimenti del ’68 e del ’77. Fu così che il rosso della sinistra estrema si tinse di viola. L’Universale era il luogo dove la trasgressione trovava la cittadinanza e dove la cultura del cinema di qualitfà si mescolava a quella della sinistra movimentista e all’amore-odio per i comunisti della sezione Potente che mal sopportavano gli eccessi di quei giovanotti un po’ alieni, anche se spesso si riconoscevano in quelle battutacce salaci e popolaresche, che avevano succhiato dalle stesse radici sanfredianine. Il Cinema chiuse nell’89, e con il cinema si chiuse una pagina di storia fiorentina. Resta il mistero di come un pubblico così potesse scegliere film di cultura così alta e raffinata e di come altezza e bassezza potessero stare insieme. Ma forse è quella stessa mescolanza che parte da Cecco Angiolieri, passa da Dante e Boccaccio, arriva fino a Benigni e che fa di noi i “maledetti toscani” che hanno il cielo negli occhi e l’inferno in bocca. La storia del Cinema Universale va letta così come una storia del Pignone, così vicina e così lontana da quella che viene da Savonarola e va fino alla chiesa dell’Isolotto. È il fascino di questa parte di Oltrarno, che ha vissuto molte e diverse storie.
Data recensione: 01/06/2007
Testata Giornalistica: In-formaFirenze
Autore: Franco Quercioli