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L’acquisizione, da parte degli Uffizi, della Madonna con Bambino in trono e due angeli del cosidetto Maestro del Bigallo – auspicata da Antonio Paolucci e portata a buon fine da Cristina Acidini e da Antonio

L’acquisizione, da parte degli Uffizi, della Madonna con Bambino in trono e due angeli del cosidetto Maestro del Bigallo – auspicata da Antonio Paolucci e portata a buon fine da Cristina Acidini e da Antonio Natali – esige un’adeguata pubblicizzazione in quanto quest’opera viene a precisare ulteriormente un capitolo della pittura del Duecento e ripropone, in termini di esperienza intellettuale e secondo il buon senso estetico, il problema spinoso e di difficile pacificazione dei metodi d’intervento sulle opere che portano i segni del tempo, dall’usura agli “aggiornamenti” più o meno invasivi. Una volta tanto, queste novità sono state affidate non ad una di quelle pubblicazioni sesquipedali che lusingano la vanità dello storico d’arte e dell’acquirente facoltoso, ma ad un agile volumetto – realizzato con il consueto livello grafico da Polistampa di Mauro Pagliai – e curato da Angelo Tartuferi, un sicuro conoscitore dei Primitivi (gli addetti ai lavori reputano già “classici” testi come La pittura a Firenze nel Duecento del 1990 e L’arte a Firenze nell’età di Dante del 2004). Nell’introduzione alla pubblicazione sul Maestro del Bigallo, Antonio Natali sottolinea i criteri adottati per inserire il nuovo acquisto nella sala progettata sulla metà degli anni Cinquanta da Gardella, Michelucci e Scarpa per accogliere i capisaldi dell’arte occidentale (Cimabue, Duccio e Giotto) e, in «una sequenza di vuoti e pieni liricamente scanditi», le opere di quei pittori che hanno avviato un nuovo corso dell’arte sacra. L’inserimento della tavola del Maestro del Bigallo e della Madonna di Casale in uno spazio considerato uno dei punti d’arrivo della museologia moderna, poteva incrinare l’equilibrio espositivo a cui erano pervenuti gli architetti ricordati, ma la soluzione adottata risulta ugualmente meditata e valorizza ulteriormente la Sala dei Primitivi. Ecco pertanto che, in virtù di queste importanti acquisizioni, il quadro della pittura toscana del Duecento si arricchisce di due presenze che hanno avuto un ruolo non secondario nella graduale conquista del “naturale” o, se vogliamo, nel passaggio dal “greco al volgare” di vasariana memoria. Angelo Tartuferi ripropone, con una chiara esposizione di confronti e di stringenti relazioni culturali, la figura del poco noto Maestro del Bigallo: analizza le peculiarità stilistiche delle poche opere sicuramente autografe, ma tiene conto anche di quelle che gli sono attribuite con argomentazioni degne di considerazione; di pari passo, ricostruisce la mobile trama figurativa del tempo – variegata di convergenze, di echi o di suggestioni formali – in cui operano personalità indiscusse, ma dal percorso ancora problematico, come il Maestro del Crocifisso n. 434, Coppo di Marcovaldo, Bonaventura Berlinghiero ed altri. La nuova presenza artistica appare tutt’altro che ordinaria, in quanto rimette in discussione i consolidati schemi della tradizione figurativa in sintonia con le attese del tempo e con un rinnovato approccio alla immagini della Fede. Il Crocifisso dipinto della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, ad esempio, s’impone per quella rasserenata conquista del motivo che, in anticipo sulle più energiche invenzioni di Cimabue, trova esempi nella scultura lignea toscana del primo Duecento (tra i tanti, quello, altissimo, della sperduta chiesa di San Gersolé, oggi al Museo d’Arte Sacra di Certaldo), ma che trova ulteriori e stimolanti esempi nelle croci dipinte, diffuse tra Pisa e Lucca. Ma è soprattutto nella produzione delle immagini di Maria – intesa come “Theotokos” e come “Sedes Sapientiae – che si avverte l’effetto della diffusione delle più antiche litanie mariane, ovvero la chiara intenzione di infondere nella sacralità delle immagini di estrazione bizantina caratteri e modi di essere più accessibili o più vicini al “naturale”. La Madonna del Maestro del Bigallo, esposta oggi nell’area riservata ai Sommi dell’arte, si presenta con un’espressione ancora concentrata, ma non rimanda più alle icone bizantine: la rotondità del volto e la semplicità del gesto arrivano invece ad evocare una sana donna del popolo (Giotto valorizzerà ulteriormente quest’impressione di semplicità e di maternità); gli occhi «lievemente in tralice» – annota Cristina Acidini – «ci fissano serissimi, vigili e un po’ curiosi» (si richiama l’attenzione del lettore sulla pregnanza di quest’ultima indicazione). Lo stesso Bambino – inteso ancora come “Dominus” e, con minor convinzione, come “Dominatur” – costituisce una buona indicazione per il più vigoroso pargolo di Giotto, di sano ceppo contadino. L’icona in questione risulta ulteriormente comunicante per i siglati modi plastici fortemente allusivi e potenzialmente “dinamici”, potenziati da un decorativismo che, sulla fine del Duecento, ha sedotto l’aretino Margaritone e, in tempi più vicini a noi, lo stesso Gino Severini ha riconsiderato con grande interesse in quanto vi riscopriva tanta di quella sapienza costruttiva alla quale gli artisti del suo tempo si erano avvicinati mediante l’applicazione alla pittura delle regole geometriche e la riflessione sulle teorie scientifiche della luce e del colore. L’itinerario attraverso la pittura del Duecento – che Angelo Tartuferi ha precisato sui dati acquisiti in indagini progressive e consequenziali – ripropone con autorevolezza anche il problema del restauro delle opere d’arte, che in questi ultimi anni – vuoi per eccesso di zelo o per un malinteso criterio di “scientificità” – ha motivato sterili e, talora, anche poco civili discussioni tra gli addetti ai lavori. Partendo dal principio che un’opera d’arte non può essere confrontata con un’altra se non se ne conosce la “pelle” – ovvero le superfici cromatiche liberate dallo sporco e dagli “aggiornamenti” più o meno invasivi – Tartuferi segue con passione le tappe dei restauri e, solo a conclusione degli interventi, le sue ipotesi si tramutano in certezze. La recente pulitura del Crocifisso dipinto di Tereglio (Lucca), ad esempio, gli ha permesso di avvicinare questo testo al Maestro del Crocifisso n. 434 degli Uffizi, mentre la pulitura della Madonna con Bambino e due Santi del Museo d’Arte Sacra di Certaldo gli ha rivelato i modi pittorici del Maestro del Bigallo. Date questi apporti, oggi egli auspica la pulitura di opere fortemente ridipinte come la Madonna con il Bambino in trono e due angeli del Conservatorio delle Montalve e la Madonna col Bambino del monastero di Rosano, come della stessa Madonna del Bordone di Coppo di Marcovaldo in Santa Maria dei Servi a Siena. Tartuferi affronta il «problema spinoso delle ridipinture più o meno “ravvicinate” dei dipinti duecenteschi» senza timore di apparire isolato o controcorrente: ritiene che «il mantenimento aprioristico di ogni qualsivoglia ripintura, persino di quelle molto antiche, non sia da ritenere dogmaticamente la strada più giusta da seguire». Per questa convinzione, reputa che si debba ancora intervenire nel Crocifisso dipinto del Conservatorio delle Montalve, opera ascritta con certezza al Maestro del Crocifisso n. 434 agli Uffizi, ma nelle tabelle totalmente ridipinta da un anonimo pittore del XVII secolo. I paladini della “storicizzazione” dei mutamenti del gusto continuano a trovare legittimi gli aggiornamenti seicenteschi; ma, già in un primo impatto con l’opera, l’osservatore riceve impressioni contraddittorie ed ambigue: le figure laterali non rendono giustizia allo strazio delle immagini primitive; il Padre Eterno con la Colomba dello Spirito Santo, la Maddalena e gli angeli delle tabelle terminali immettono nella rappresentazione del Crocifisso un anacronistico spirito controriformistico. Pertanto la proposta di Tartuferi si prospetta più che doverosa non solo per la dissonanza stilistica dell’aggiornamento seicentesco, ma soprattutto per il fatto che le radiografie hanno attestato che «la pittura ducentesca sottostante è conservata per la maggior parte e presenta interessanti variazioni iconografiche […] non solo nel tabellone principale, ma anche in quelli laterali». Finalmente una voce chiara nel campo del recupero delle opere d’arte, in cui si scontrano opinioni sostenute da argomenti più o meno solidi, ma anche interessi settari destinati a creare nuovi centri di potere nel settore che tutela le opere d’arte, e in un momento in cui, in nome delle scientificità operativa, si tende ad omologare l’unicità delle varie espressioni figurative. La diatriba tra gli interventi conservativi e gli interventi stilistici, tra il criterio “purista” e quello “imitativo” ha superato i limiti di un corretto confronto dialettico: da tempo dilga la moda delle “toppe” bianche che ostacolano la comprensione dell’unità compositiva dell’opera e, in certi casi, ne vanificano la funzione didattica in quanto la presentano agli spettatori come disiecta membra sopra un tavolo anatomico (per esemplificare questa situazione, si richiama alla memoria del lettore la situazione attuale degli affreschi di Giotto a Santa Croce e della stessa Madonna del Parto di Piero della Francesca a Monterchi). Contrariamente ad alcuni storici dell’arte che sbandierano il problema del restauro con colpi di scena o con conclusioni intransigenti, Tartuferi porta avanti il dibattito sul restauro in termini civili e con argomentazione riprovate sul contatto quotidiano coi testi pittorici e sulle indagini tecniche (se ne ha più di una conferma nelle motivazioni serene che oppone a certe ipotesi critiche di C.L. Ragghianti, di A. Caleca, di L. Bellosi e dello stesso M. Boskovits); ma, purtroppo, certe prese di posizione tardano a fare marcia indietro o ad imboccare la via del “buon senso”, in quanto l’acribia e le conclusioni critiche si appigliano sempre più frequentemente ad argomentazioni fumose e a preconcetti che distolgono l’osservatore dalla comprensione della funzione primaria delle opere d’arte, dalla loro qualità di “segno” e di “Biblia pauperum”, nonché dai criteri di visibilità studiati dagli artisti del passato per inserire le immagini della Fede in determinate atmosfere ambientali.
Data recensione: 01/05/2007
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Piero Pacini