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Non aveva mai amato viaggiare Ottone Rosai, e forse non ne aveva nemmeno avuto troppe occasioni. Si era spostato solo in guerra: nella grande guerra fatta da “interventista intervenuto

A 50 anni dalla morte il vecchio futurista si prende la rivincitaNon aveva mai amato viaggiare Ottone Rosai, e forse non ne aveva nemmeno avuto troppe occasioni. Si era spostato solo in guerra: nella grande guerra fatta da “interventista intervenuto”, in cui da soldato semplice era stato promosso per il suo valore aiutante di battaglia, il massimo grado della gerarchia dei sottoufficiali.
Ma poi, nella vita civile, era rimasto sempre a Firenze, anzi, di preferenza, in quella Firenze «più Firenze delle altre», che è l’Oltrarno. Un pò perché, come tutte le persone ricche di sensibilità, capaci di cogliere l’eterno nel battito d’ali di una farfalla e l’immensità del cielo nel raggio di luce che filtra in un veicolo, non aveva bisogno di cercare ispirazione sotto altri cieli. Un pò perché Parigi, mèta tradizionale dei pittori della prima metà del Novecento, gliel’aveva già raccontata Ardengo Soffici che, prima della rottura del 1931, era stato suo maestro; e perché comunque lui non avrebbe mai barattato la sua casa di via San Leonardo dagli embrici in cotto dell’Impruneta con qualche mansarda da bohème dal tetto d’ardesia.
E poi sapeva che neppure Roma gli sarebbe stata molto grata, con Mussolini che, quando si recavano da lui i collaboratori dell’Universale di Bero Ricci, non lo voleva ricevere, non per motivi politici, ma perché i rapporti della Questura lo avevano informato sul carattere non disinteressato della sua disponibilità nei confronti dei giovani.
Eppure, quella sera del 12 maggio del 1957, Ottone Rosai, in una camera al primo piano dell’albergo Dora di Ivrea, era contento di aver lasciato Firenze. Il viaggio era stato faticoso, ma il pittore l’aveva affrontato con entusiasmo e pareva in buona salute. Aveva superato i sessant’anni (era nato a Firenze nel 1895), ma lavorava con un ritmo commovente, anche perché aveva la sensazione che, dopo lustri di emarginazione, la cultura italiana tornasse a occuparsi di lui. A gennaio, nella sua Firenze, i suoi dipinti erano stati esposti in una grande mostra che raggruppava tele dei più grandi maestri novecenteschi, da Braque a Mirò, da Léger a Picasso, da Sironi a Viani, da Casorati a Tassinari. E ora il Centro culturale Olivetti si accingeva a inaugurare una grande antologica della sua opera, espondendone sessanta dipinti. Una consacrazione ufficiale, una smentita a quanti lo avevano ottusamente rimosso, confinando la sua arte nella dimensione vernacolare del bozzetto, “fuciniana”, forse perché - anche se Carlo Ludovico Ragghianti per sottrarlo alla spada di Damocle dell’epurazione gli aveva attribuito meriti resistenziali e il vecchio amico Bilenchi lo faceva collaboratore al Nuovo Corriere - non aveva mai voluto rinnegare il suo passato di ardito e squadrista; e ancora nel 1951, nonostante le perplessità di Carlo Bo, aveva ripubblicato nelle copie numerate di Vecchio autoritratto i suoi ricordi di guerra e persino certe feroci invettive antisocialiste.
La mostra di Ivrea, allestita in uno dei templi del capitalismo illuminato, avrebbe dovuto rappresentare il riscatto del vecchio teppista, i cui quadri i fiorentini-bene dopo il ’45 avevano spostato dai salotti nelle cantine, per paura di essere additati come fascisti e anche come qualcos’altro, come ha ricordato il gallerista Piero Pananti nel numero speciale dedicato a Rosai dalla rivista Il Portolano (Polistampa). Avrebbe potuto costituire la sua rivincita su un ambiente artistico in cui gli astrattisti e i figurativi si combattevano senza esclusione di colpi, salvo mettersi insieme nel dare addosso al vecchio rivale identificato con un passato da dimenticare,
Il destino volle che Rosai non provasse questa gioia. All’alba del 13 maggio il suo cuore cessò di battere. «Uno schianto, non una lagna», avrebbe detto Ezra Pound. Un urlo disperato nella notte, un infarto improvviso e imprevedibile. Si avverava quello che Rosai aveva prefigurato in un «carboncino acquerellato su carta» disegnato nel 1943 e raffigurante un uomo in croce. Un uomo d’oggi, in camicia e pantaloni, con un albero secco di fronte e sullo sfondo un paesaggio industriale alla Sironi. Un uomo d’oggi che sarebbe potuto essere egli stesso, crocifisso in vita dagli altri - dai critici di corte vedute che l’accusavano di dipingere “omini” e invece gli “omini” erano proprio loro, dalla stupidità di una “culturina” che si vergogna di via Toscanella e sogna Montmartre - ma crocifisso anche da se stesso. Dalla sua incapacità di accettare fino in fondo la sua natura, dall’ombra del padre Giuseppe, malato e oppresso dai debiti, buttatosi in Arno nel febbraio del 1922, dal rimorso per le sofferenze dell’affezionatissima moglie Rosa, dalla carica eversiva che gli aveva fatto spaccare la tavolozza sulla testa del suo maestro di disegno, dal suo essere sempre e disperatamente fedele a se stesso, sia durante il Ventennio, quando i giovani che credevano nel fascismo rivoluzionario gli intitolarono addirittura una rivista, sia nel dopoguerra, quando qualcuno cercò di fargli pagare il conto della sua giovinezza futurista.
Oggi, a cinquant’anni da quell’alba tragica, da quella che, in un bello e amaro crepuscolo, Giovanni Faccenda ha definito «la morte assurda di Ottone Rosai», è giusto che Firenze faccia i conti col pittore che ne ha consegnato alla storia l’ultimo volto di città a misura d’uomo, le strade del centro storico non ancora contaminate da un arredo urbano omologante, le mescite, non ancora divenute enoteche, in cui era possibile giocare per un pomeriggio intero una partita a carte davanti a mezzo litro di Chianti, i giocatori di toppa non ancora strafatti dai tappetini dei senegalesi, i suonatori strapaesani non ancora sostituiti dai musicanti peruviani. È giusto che ricordi senza ipocrite rimozioni il futurista che al momento giusto aveva compiuto il suo ritorno all’ordine, il pittore amato da De Chirico, l’artista che aveva saputo assimilare i suoi colori dalla terra toscana, dalla luce dei vicoli d’Oltrarno, dalle tele o dalle pagine degli autori preferiti, Soffici e Papini, Palazzeschi e Campana, e poi Bilenchi e Pratolini, Bo e Luzi.
Ma soprattutto è giusto che Firenze non dimentichi il suo cuore di uomo generoso, anche quando era costretto a fare i conti giorno per giorno con la sopravvivenza; il cuore di un uomo che avrebbe potuto sottoscrivere le parole del protagonista di un romanzo di Bernanos e con esse la più bella confessione che sia stata fatta: «Quando sarò morto dite agli altri che io li ho amati più di quanto non abbia mai osato fare».
Data recensione: 13/03/2007
Testata Giornalistica: Il Secolo d’Italia
Autore: ––