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La poesia, forse, è l’arte dell’impossibile in quel misto di fuga e di sogno con cui intende squarciare i veli di realtà lontane; è il tentativo

La poesia, forse, è l’arte dell’impossibile in quel misto di fuga e di sogno con cui intende squarciare i veli di realtà lontane; è il tentativo di oltrepassare le eterne colonne d’Ercole che limitano gli orizzonti dell’umano pensiero al di qua di una siepe, impassibile e muta. La poesia diviene, ad un tempo, la gioia e il tormento, il vero e il falso, il reale, l’irreale. È uno strappo che accompagna la vita del poeta e fa scorgere in sé e negli altri l’ambivalenza originaria della poesia come, da una parte «fondazione di un nuovo rapporto con il mondo e rende quindi possibile una vicinanza essenziale con il mondo stesso», e dall’atra come qualcosa «che si compie nella separazione esistenziale e presuppone quindi una distanza radicale, altrimenti mai raggiunta, dal mondo (L. Boros)». Mi venivano alla mente le su citate considerazioni leggendo i versi di Michele Brancale in La fontana d’acciaio (edizioni Polistampa, pp.70, euro 8), e nello scorrere della lettura, mi rifacevo al poeta, all’uomo, al giornalista, all’uomo impegnato nel sociale che è Brancale, come in un doppio piano della sua vita (che è poi di tutti noi ): quel che ti isola e quel che ti immerge nell’agorà. E nella lettura (e rilettura) de ‘La fontana d’acciaio’ mi risuonavano nomi (almeno solo nel verseggiare ) che corrispondono a quelli di Giorgio Caproni, Cesare Pavese: quel verso-narrativo che ti sembra lì per lì banale, ma a una seconda lettura ti illumina e ti apre un orizzonte lirico suggestivo: «Camminiamo una sera sul fianco d’un colle, / in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo…». Sono i primi versi, piani, colloquiali, di «I mari del Sud» di Pavese; una poesia di sogni e di cose, di oggetti. «Avevo freddo sotto le coperte. / Sono sceso, la caldaia era spenta. / Sono stato un po’ così , mi diverte / l’evidenza silenziosa: diventa / compagna discreta, ma non inerte, / della vita che ha bisogno, che stenta / a fermarsi e che per guardarsi vera / si sveglia, sorride di quel che era…». Sono i primi versi iniziali di Brancale, della prima sezione, «Dalla stanza», che come un cerchio apre e poi chiude il discorso poetico attraverso altre sezioni come «La fontana d’Azzaro», «All’esistente-inesistente», «Ritorno a casa», «Arrivederci». Il poeta peruviano Isaac Goldemberg nella sua bella prefazione osserva, tra l’altro, come la Raccolta di Michele Brancale «possiede una tale potenzialità diegetica che al suo interno potrebbe essere nascosto un romanzo di duecento pagine». Osservazione, quanto mai giusta, che potrebbe richiamare il ricco retroterra culturale, esistenziale e spirituale dell’Autore che sintetizza in pochi versi quel che potrebbe essere sviluppato in un romanzo o comunque in varie narrazioni. La poesia è questa. Sintesi, pregnanza emotiva, suggestione ed esplorazione del mistero, quello Eterno e quello terreno che ci accompagna ogni giorno. E la poesia di Brancale è questo colloquiare con se stesso e con un Tu, esistente-inesistente, con cui fa un cammino, vero, reale, qui «su un’ansa dell’Arno... tra i sassi di Fiesole per scendere all’esterno tra la cave di Maiano alle Cure…». Un colloquiare ritmato, e forse spezzettato, ma che attraverso tante strade arriva alla casa: «La gomena tiene ferma la nave». Forse questa prima raccolta poetica di Michele Brancale, proprio per la sua grande ricchezza e suggestione di idee e di emozioni, sarà la Fonte di altre Raccolte; forse, non so, ma credo che contenga le premesse per ridare altra acqua poetica in un mondo di grande pragmatismo.
Data recensione: 06/05/2007
Testata Giornalistica: Toscana Oggi
Autore: Vincenzo Arnone