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Gennaro Oriolo, nato a Crosia sullo Jonio, vive attualmente a Firenze, «città amata e odiata con furore dantesco » ed è con Meditate fughe e taciti abbandoni alla sua prima opera poetica; si

Gennaro Oriolo, nato a Crosia sullo Jonio, vive attualmente a Firenze, «città amata e odiata con furore dantesco » ed è con Meditate fughe e taciti abbandoni alla sua prima opera poetica; si tratta, però, di un esordio a lungo elaborato, contrassegnato da una raggiunta maturità e da un particolare controllo formale.
L’opera, divisa in cinque sezioni, ognuna delle quali introdotta da una precisa citazione (da Un Brindisi di Mario Luzi, Il muro della terra di Giorgio Caproni, La mela di Amleto di Toti Scialoja e Ed è subito sera di Salvatore Quasimodo) raccoglie testi scritti in tempi diversi, ma posti all’interno di un disegno che del trascorrere “tacito” ma inesorabile del tempo fa uno dei suoi temi centrali. Attraverso un incessante dialogo con la tradizione poetica, da Dante a Petrarca, da Montale ai poeti prima citati, si realizza nell’opera «un’incisiva intertestualità», che trasforma il tema del viaggio nello spazio e nel tempo in quello del viaggio nelle letture del passato e negli amori nati durante quelle stesse letture, così decisive per la formazione umana e letteraria dell’autore.
Come scrive Franco Manescalchi nella Prefazione all’opera, «le fughe sono gestite dal logos e non dal pathos, sono meditate, il poeta sa che è la parola a dare forma ai sentimenti fermati in una sorta di portolano di chi guarda nei suoi mari interni, montalianamente salini».
Così lungo il viaggio, fatto di citazioni e ricordi di vita, di mappe e descrizioni appena tracciate, le soste si alternano all’andare, le attese ai ritorni, le fughe agli abbandoni.
La fuga, però, non è mai una rinuncia, mai frutto di un impulso del momento, ma sempre motivo di movimento ed esplorazione, di conoscenza e acquisizione del nuovo; una vera e propria strategia del continuo e quotidiano esperire la vita, un meditato slancio verso l’esistenza, che dall’io si rivolge al noi, nella continua ricerca di una dimensione corale della parola poetica, come nel componimento A noi che i padri.
Come sostiene Gerardo Leonardis nella Postfazione dell’opera, «il verso si fa sintesi di controllate tensioni, dove il ricordare emerge da una retrospettiva di distacco su cui egli vigila senza mai scadere in solipsistiche macerazioni». Come un «ulisside della poesia», viaggiatore esperto dell’anima e del mondo, in fuga dai limiti e dalle storture del nostro presente, Gennaro Oriolo calibra con maestria le diverse componenti della raccolta e tesse il suo ordito poetico, senza rinunciare ai toni ludici e ad alcune giocose invettive, come avviene nelle sezioni intitolate Le trame sottili e Viaggetto in Toscana e dintorni, quasi un omaggio ad un poeta per lui importante, Scialoja.
Una presenza femminile circondata dal mistero e mai invocata direttamente è presente in particolar modo nella prime sezioni, compagna di viaggio e musa, insieme presente e perduta, perfetto emblema del senso di preziosa precarietà della vita e viene lentamente a confondersi con il tema della fuga del tempo, come nella poesia Recinti sacri:

Non ci potevo credere
che i paletti da te, da me piantati
a custodire i recinti sacri
i sensi profani mai vinti;
no! Non ci potevo credere
bruciassero vermigli all’esca
di un enigmatico sorriso.

Eppure in questo inverno che già fugge via,
morso da una canicola furtivamente estiva,
in questo carnevale che tramuta la vita,
agli occhi si disvela inesausto mistero
l’epifanica trama delle tue membra schive.
Data recensione: 01/09/2006
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Monica Venturini