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È per dire grazie, un grazie minuscolo di mezzi per i meriti di questa maiuscola poesia di Franco Manescalchi, che nella meditazione dell’immediata- mente le dedico così, a mio

È per dire grazie, un grazie minuscolo di mezzi per i meriti di questa maiuscola poesia di Franco Manescalchi, che nella meditazione dell’immediata- mente le dedico così, a mio modo, questo “origami” “senza livree” di parole, fiorito nelle mani della mente che beve sorso a sorso, centellinata nella quieta tensione del con-senso, l’ardita mitezza dei suoi versi. Maturata di asciutte lacrime, come frutto di malinconia in un cesto di primizie, alle domande di un “ragazzo dai capelli lunghi / troppo alto per stare con i piedi per terra / ma nel fondo triste / per perdere la testa fra le nuvole”, ardita-mente quella mitezza è entrata “nel mondo a pugni chiusi”, croce/ombra “sulla soglia” di tutte le sue domande/croci: lunga-mente portate, sopportate e serbate in fondo al cuore come indurito e pur ardente frutto. Schizofrenicamente sdoppiatosi “scaglia a scaglia come galestro” l’infinità di un futuro deprivato di confini, da cui egli allora sperava “chi sa cosa”, quella dolorosa, confinata infinità si è poi definita, ri-componendosi in “dura malta”, “quasi fosse niente”, “sull’asfalto del mondo”: ove “il potere convulso della vita / uscita da se stessa” vive per avere già vissuto quel futuro nel presente passato d’un “conato / di ruote celerissime”. “Veramente solo”, apolide di “un’alba illividita” (al suolo “il guscio di cicala dell’estate”) croce su pietra quel ragazzo ha impastato con quella malta ri-com-posta con “ira ed ironia”, febbrili, definite domande per edificare tese, pro-tese, con-tese, in-definitive risposte: risposte curve di “libri sopra a libri per progetti / di libri” accatastati di parole dette “a mezza voce” e poi dis-dette “per stare con tutti e dunque con nessuno”, fabbrilmente intra-dicendo l’ansia della fuga, dell’“aria nuova, pulita”, nel segnosogno d’un “vano gesto prometeico”. In inverni carichi di “neve nera” a corrodergli le “vene”, senza guscio in focolari sempre più freddi di parole “con la lancia nel costato”, egli ha cercato allora “un punto fisso, un segno dell’amore” nel n o s t o s verso il “nido dell’assenza dell’essenza / ai confini del bene”: là, nel silenzio dell’ombra abbandonata, dove ancora stormiva la frescura dell’infanzia. Così, pronto a partire ri-partendo “dalle sponde degli anni accatastati”, senza definizioni iterati e reiterati come quei libri, scaglia a scaglia uno sull’altro (“tutto preciso secco / arsa sul fuoco l’ultima speranza”), senza avere “messo insieme neppure un pugno di male”, “creatura da corsa e panorami”, creatura-uomo “con le dita bruciate in punta / dal fuoco dei tasti e del tabacco”, quell’uomo/poeta se n’è dunque andato “per questo mondo” non più da solo “ma insieme a chi” – come lui – lavorava “a ciglia basse” “l’inquietudine del sogno / il gesto il tratto il segno il muro l’osso / la pietra il corso (della storia) il filo rosso / che moltiplica gesti collettivi”: e mai più da solo ha continuato poi ad andare finché, “ad un certo punto”, “il nodo alla gola il nodo degli anni” (libro su libro come pietra su croce) quella catasta di parole/libri/anni di progetti, dis-utilmente edificata a mezza voce e avvolta intorno alla propria solitudine (annodata come un cappio di “cravatte scarpe fibbie lacci”) si è di-sciolta, dis-solvendosi, come la sua “neve di maggio”, nel mutuo incontro con ogni insieme a lui impegnata a risolvere a “ciglia basse” lo stesso esercizio. Per “tra-dire” e “non tradire” le diverse, inter-attive nella responsoriale responsabilità con-partecipe della comune congettura, il poeta Manescalchi ha così saputo e voluto de-isolare la poesia dalle sue disutili crepuscolarità, assorte e incardinate a celebrare la de-costruita solitudine dell’uomo (veste-compenso-prezzo delle sue narcintimistiche ferite) per investirne eretica-mente (fra Gramsci,Popper e Feyrabend) né patetiche, né paritetiche, né ottative, ma pragmatiche e progressive le sue sortite risorse: per viverla, quella poesia, e infine “sentirla vivere” organicamente, come “fatto vero che vuole accadere”. Così, con-dividendo la sua mensa sensibil-mente imbandita di parole (quelle parole che la storia artatamente consuma nella dicotomia fattovalore) Manescalchi ne compone il corrispondente jato politico-culturale, attuando la storia stessa nell’attualità dell’azione creativa. Organica al suo tempo, quel tempo che la memoria, cercando ed aggregando senza dimenticare, con-muove nell’impegno a-vocato dall’“assenzio” ossimorico del suo “interno paese straniero”, questa poesia può (e sa) permettersi dunque anche l’alleanza con la prosa delle parole contaminate-animate dalla/nella libera circolazione quotidiana, per costruirne poietica-mente responsabile e matura la responsorialità, “di schiena dritta”, critica e inter-indipendente “contro la civile ipocrisia del potere”, e(s)ternandosi in “laica comunicazione di speranze”. Con un ludo “colpevole” di lingua, di quelli magistralmente azzardati e pro-posti dall’unisono del suo senziente impegno-ingegno, Manescalchi dis-pone così il “carapace” della sua poetica, (“tra-dire per non tradire”) insolita come una “tartaruga capovolta” e protettiva come una “hoperta su ‘i tetto” distesa “a ‘i’ limitare delle stelle”: poetica che, con-vertendo inter-convertite le contra(d)dizioni dell’“assenzio” coscienziale (“disagio / di cambiali scadute di rancori”), ne de-duce e traduce l’interno “sentiero-pensiero” con-ducendolo facondo “fuori dagli specchi” d’ogni sterile intimismo verso la feconda intimità dell’amicizia. De-fluendo d’intenzioni e inter-azioni, per ritornare a con-fluire nella fonte della resistenza, è l’amicizia che, nella poesia di Manescalchi, scrive al plurale “con mille mani” di “popolo” ribelle, per esistere e dettare alla storia la storia dell’avvento della sua buona novella “con una rosa a sinistra del costato”, per “vivere / come davvero si deve”, dividendo “l’amore dalla morte” nella scelta del primo che riscatta la seconda dal ricatto della cioraniana gettatezza nella ‘odissea di rancore’ del mondo: impari, improvvisa, dismorfica “scacchiera”, ove per guadagnare la partita, spesso anche i cari compagni ringhiano… cari / cani. Fragilmente caparbio nella confessata consapevolezza della “pròtesi” di coraggio che ardentemente si aderge protesa alla possibilità di un conpossibile futuro, la poesia di Manescalchi maiuscola s’intrattiene, sostando con le minuscole, per cambiare “verso e recto” i connotati alla dentata chiostra della prepotente umana nel chiostro di una dimessa, inpositiva solidarietà, abitata e praticata nel “viceversa” dell’appartenenza. Sul “rame antico” di quell’appartenenza, in bilico fra passato e presente, Manescalchi tiene ‘qui e ora’ in pugno il gesto per in-scrivere nel segno del senso il sogno di un tempo che, empio, ritorna pio nel tempio senza porte di una memoria collettiva-mente fiduciosa del suo futuro. E’ dunque per appartenere proteso, senza pròtesi, a quel tempiotempo che “non ha ed è”, “impaginato in fogli intensi d’oro”, che nel nido doloroso, ma anche argutamente ironico dei suoi versi (cito in proposito la solitaria, deliziosa cena con “’i’ gatto” ove, ambedue “sdigiunati” con una scatoletta “senza cipolla e senz’olio”, si “miagolano sazi: a domattina!”) il poeta si snida annudandosi in bergsoniano fluire d’anima. Attraverso le contra (d)dizioni del con-porre per o(p)porre e de-costruire per ri-costruire la primigenia innocenza di quelle dizioni-contro, egli s-compone luminosa come una cometa in transito, in eleganza di lingua scelta e sperimentata nel continuum del progress (ergo, dialettica-mente), la sua trasparente volontà di mostrarsi dirompendo dall’ermetismo fumoso della incomprensibilità/incomprensione che si appella soltanto alla ragione delle ragioni senza ascoltarne il sentire: quel sentire che funzionando opera, agendo unisce, e con-sentendo può anche dissentire proprio in virtù della fiducia richiesta, già implicitamente contenuta e concessa nella volontà di esporsi con chiarezza ed onesta’ alla critica . Ecco allora che le “troppe nervature” dell’albero ramificato /ante del confessato sentire del poeta, concentrato “nel respiro dello sguardo nel gesto del segno” (proprio così, sempre senza punteggiatura, per creare la possibilità di stimoli, ove ognuno è diretta-mente co-involto nella personale de-codifica dell’elicoidale dna dei versi) si con-centrano confermando la volontà centrifuga per arrivare “alle soglie degli altri”. E’ lì che, insoddisfatta nell’incertezza del senso, il segno della onesta azione creativa si conforta nel confronto con la presenza del suo oggetto di desiderio, già disegnata nella interiorità dallo sguardo dai suoi stessi occhi: come la ‘perfetta similitudine’ di cui scriveva il buon Dante a Cangrande della Scala, la ‘fonte cristallina’ di Giovanni della Croce, la ‘carità che crede tutto’, che Agostino richiama dalla lettera ai Corinzi di Paolo. Confrontandosi con quel conforto di oggettivata interiorità la poesia di Manescalchi approda pudica, schiva e tensiva alla con-vincente sua certezza etica /estetica, irrompendo e dirompendo nell’“eppure” che ‘ditta’ fuori a-vocato dalla manifestata interiorità verso il colloquiale progetto di un “interiore futuro” con-versato fuori dal suo cerchio/ centro: quello che responsabilmente responsoriale, “con tu lucidi di vento”, “abbatterà le parole dello speaker” nella rivoluzionaria pro-posta dell’ ”oppure”. Devotamente laica, fraternamente plebea, politicamente mistica, eticamente estetica, intimamente pubblica, liricamente pedagogica nella sua vocativa sineciosi per l’accoglienza e l’inter-azione attraverso la confessione/ comunicazione, con questa sua “neve di maggio”, scavata di sole a scontare il dolore dell’errore e dell’orrore “a ciglia basse” e di “schiena dritta”, da caro compagno sempre “alle soglie degli altri”, poietica-mente Manescalchi ha fatto la sua parte, “a ciglia basse” e “di schiena dritta” per ri-condurre il prepotente potere della vita, uscita dai suoi cardini, “ai confini del bene”, intra-dicendo nel suo testimoniale passaggio/messaggio di poetica scrittura, i pensieri di Abele: quei pensieri che, traditi sui sentieri di un mondo caina-mente manipolato e deprivato del suo paziente stupore senza carità, ri-suonano nelle sue “cataste di parole” solida(l)mente edificate in modulata, relazionale sinfonia, per partecipare, partecipate, alle aspirazioni/ intenzioni del destino comune ad ogni singolo “interno paese”, non più “straniero” se manifestato e condiviso nel tempo/tempio bene-dicente dell’amicizia, che se-ducendo senza seduzioni, tra-duce e con-duce il mondo per amore del mondo. Come questa poesia, appunto.
Data recensione: 30/12/2006
Testata Giornalistica: Il Portolano
Autore: Anna Maria Guidi