Nella via delle Pinzochere, in pieno centro
Nella via delle Pinzochere, in pieno centro
storico, proprio a mezza strada tra la basilica di
Santa Croce e Casa Buonarroti, si trova lo
Studio di mio padre, Piero Bargellini. I fiorentini
lo sanno. E non per averlo letto in qualche guida.
Tanti di loro hanno inviato una lettera a
quell’indirizzo. O vi si sono recati
personalmente. Innumerevoli testimonianze ci
dicono che il legame esistente tra la città – e i
cittadini – e l’abitazione di mio padre è forte e
complesso. Quando l’acquistò, nel 1946, con il
denaro ricavato da un fortunato libro scolastico
intitolato Bellariva, probabilmente non ci
pensava affatto. Le sue residenze a Firenze erano
sempre state a locazione. Il lavoro si svolgeva
fuori casa. Era l’attenzione incessante per gli
esiti della rivista da lui diretta, Il Frontespizio.
O la responsabilità del lungo impegno didattico,
in qualità di maestro prima e poi di ispettore.
Fuori città aveva vissuto i turbamenti e i pericoli
della guerra. E la minaccia più grave, che
incombeva su tutte le famiglie numerose, come
la nostra: la fame. Dalla quale era stato salvato
grazie al provvidenziale intervento di un giovane
prete di campagna (sarebbe poi divenuto vescovo
di Pisa), Don Benvenuto Matteucci, che aveva
rinunciato alla mistica quiete della propria
parrocchia per sopportare santamente le
incursioni di una dozzina di ospiti, alcuni dei
quali particolarmente petulanti ed esigenti – e sto
dicendo di me e dei miei fratelli. Là, a Poggio
alla Malva, la vita regolata della canonica
risvegliava nel babbo il desiderio di un rifugio
proprio, una pieve per sé, la sua famiglia, il suo
lavoro. Vi avrebbe trovato concentrazione per
l’apostolato di divulgazione al quale intendeva
dedicare le proprie doti letterarie. E un porto
sicuro per la mamma e per noi ragazzi. In quei
giorni, Matteucci invitò il suo amico Bargellini a
visitare la vecchia chiesina di Santo Stefano alle
Busche, parrocchia fino al Settecento,
abbandonata nel 1741. Trasformata in stalla e
interessata da continue inondazioni, minacciava
di rovinare da un momento all’altro. Sopra alla
lunga mangiatoia, nascosta dall’intonaco di
calce, videro risaltare una successione di
semicerchi affiancati. Vi riconobbero subito i
nimbi degli apostoli di un’ultima cena. Su un
altro muro, scrostando appena la superficie,
apparve al loro sguardo commosso il volto di un
angelo: un’Annunciazione. Il ciclo di affreschi
era trecentesco. Fu staccato e restaurato. Insieme
al soprintendente Procacci venne deciso che
alcuni fossero visibili in parrocchia da
Matteucci; gli altri, da Bargellini. Nel frattempo,
la mamma Lelia aveva acquistato un palazzetto,
un tempo dei Da Cepparello e dei Da
Verrazzano. Era in uno stato deplorevole. Il
restauro andò avanti a piccoli passi, man mano
che nuovi guadagni lo permettevano, e durò otto
anni. Nel 1954 lo Studio era pronto, e pian piano
anche le abitazioni. Le due sorelle maggiori
vennero ad abitarvi per prime. Anch’io vi dormii
abbastanza presto. O dovrei dire che vi vegliai,
perché mi ci volle del tempo per abituarmi alle
stanze vastissime, alte più di sei metri, i lunghi
corridoi, la misteriosa scala a chiocciola che
portava giù nelle cantine e su all’altana. Quando
ero sola, serravo a chiave le porte di
comunicazione e ascoltavo il silenzio.
Finalmente il momento tanto atteso era giunto:
la famiglia riunita, la casa arredata, la biblioteca
disposta con ordine. I grandi affreschi
riflettevano spiritualmente gli ideali dello
scrittore e del suo universo culturale. Non era la chiesa degli “scrittori cattolici” ma la sagrestia
di un cattolico che scrive. Non il luogo dove si
ricerca l’ascesi, ma lo scrittorio al quale ci si
applica diligentemente. Quasi una promessa,
sull’architrave all’ingresso dello Studio si
leggeva (e vi si trova tuttora) domus orationis.
Se non che, in pochi mesi, mio padre si rese
conto di quanto lo spazio predisposto per le
proprie esigenze attraesse i concittadini, per
bellezza e centralità. Che Bargellini fosse
diventato reperibile piaceva a molti fiorentini,
desiderosi di un punto di riferimento meno
chiassoso dei desueti caffè letterari. Due
categorie di visitatori prendevano posto quasi
ininterrottamente davanti al suo tavolo: i poveri
bisognosi e gli uomini di cultura. Argia e Primo,
la coppia che faceva pulizie in casa, avevano il
compito di far passare gli uni e gli altri, in
qualsiasi momento della giornata tranne che
all’ora dell’inviolabile pisolino pomeridiano.
Nello Studio s’incontravano, dunque, i carcerati
usciti dalle Murate, che non avevano alcun
mezzo per raggiungere le loro famiglie o non
sapevano dove trovare lavoro. Con loro c’erano i
pittori, a discutere un progetto o a tagliare i
panni addosso a qualche collega. Insieme agli
amici con i quali più spesso collaborava
– Borgiotti, Rosai, Checchi, Bernardini, Soffici,
Manfredo Borsi, Pietro Parigi – vedevo arrivare
artisti per i quali mio padre nutriva grande
ammirazione, come Primo Conti, Luigi
Bartolini, Morandi, Colacicchi. Anche Fritz
Hundertwasser era nostro ospite. Il suo
dichiarato intento era di starsene in pace. Si
considerava ormai di famiglia, avendo collocato
per un anno intero il suo studio nella nostra
serra. E mi faceva la corte, con discrezione.
Venivano anche i poveri d’ogni quartiere, magari
mandati dal parroco: avevano una caparra da
pagare, o l’affitto, o le cure. Mio padre,
obbedendo al precetto biblico, non negava mai
aiuto a chi domandava. Poco più in là, in salotto,
i letterati erano in piena discussione: Falqui,
Pratolini, Cicognani, Bacchelli, Macrì, De
Robertis; più raramente Spadolini (che era
sempre al lavoro), Prezzolini (perché temeva di
disturbare), Quasimodo (che una volta, uscendo,
chiese “ci siamo dimenticati di sparlare di
qualcuno?”). Giungevano nuovi amici: Tobino,
Alfonso Gatto. Si facevano avanti donne d’ogni
età, intimorite e al tempo stesso determinate,
segnate dalla sofferenza. Trovavano il coraggio
di chiedere per il convivente, per un bambino
senza padre, per liberarsi di una fonte
vergognosa di guadagno. Dopo l’imbarazzo
iniziale sentivano che non c’era tempo per
considerare pudicizia o buone maniere. Dolore
ed ignoranza erano sufficienti per esprimersi
meglio di qualsiasi professore. Simili a loro,
ricordo gli scultori: le parole magre ed incisive
di Manzù, la commozione intensa di Berti, la
franchezza di Messina. All’opposto, mai ho visto
tanta vivacità, polemica, agitazione come quando
il babbo parlava con degli architetti. Era una
passione profonda, quella per l’architettura. A
chi gli chiedeva il titolo del suo libro che più
amava, rispondeva: “Si amano i figlioli più
sfortunati, e il mio è stato Volti di Pietra”, che è
una storia dell’architettura. Voleva che lo
informassero dei loro nuovi progetti, che gli
portassero fotografie e disegni: Michelucci,
Ricci, Savioli, Detti, Gamberini, Giovanni Klaus
Koenig. E il mio architetto preferito, Roberto
Nardi - mio marito. Maggiore discrezione era
richiesta quando gli ospiti erano del mondo dello
spettacolo, che il babbo considerava forse gente
suscettibile. Ricordo Zeffirelli, Rossellini,
Volonté, Francesco Rosi. Questi ultimi
desideravano girare alcune scene nello studio. Fu
la mamma ad opporsi, spaventata dal trambusto
che ne poteva derivare. Mio padre adorava il
cinema, tanto che da un suo testo Zavattini ha
tratto “La porta del cielo” per De Sica. Non
ricordo purtroppo Jean Gabin che, mi fu detto,
era stato introdotto da Spadaro. Incontrai invece
René Clair. In verità, tra i francesi il babbo
adorava Rénoir. Era però affascinato dal mondo
poetico di Clair. Iris Origo, che lo sapeva, volle
fargli una sorpresa. Avrebbero potuto parlare per
delle ore: la conoscenza letteraria di Clair era
immensa, mentre il babbo conosceva tutto il
cinema francese. Altri nomi sono indelebilmente
fissati nella memoria dello Studio di mio padre.
I ricordi più cari sono legati ai compagni
affezionati di tutta la vita: Arciniegas, Betocchi,
Bo, Cardeira, Lisi, Luzi, Moschi, Parronchi,
Vallecchi, Wis… E poi Marino Moretti, che
veniva a pranzo regolarmente con la sorella ed
era incantato dalla segretezza accogliente della
nostra casa. E quello che più ho amato,
Ungaretti. Gli ho voluto bene come ad un nonno.
Quand’ero bambina diceva di me: “È piccola,
ma saggia”, il più bel complimento, forse, che
mi sia mai stato fatto. Prima o poi, per nostra
fortuna, veniva il momento in cui avrebbe
recitato le sue poesie. Arrotando le parole,
stringendo le palpebre, scolpiva le parole per
suscitare ardue emozioni. Si volgeva verso le
immagini di Cristo che gli si ergevano innanzi
dalle pareti: “Ora che l’innocenza / Reclama
almeno un’eco, / E geme anche nel cuore più
indurito”, declamava all’immagine del
Redentore davanti a Pilato. Stringeva in una mano gli occhiali, sempre più stretti,
coinvolgendoli nel suo impeto. “Santo, Santo
che soffri, / Maestro e fratello e Dio che ci sai
deboli” e quelli si frantumarono con un lieve
tintinnio. Nessuno di noi l’ha mai dimenticato.
In quegli anni, nello Studio nacque il Comitato
per l’Estetica Cittadina. Vi si tennero i primi
incontri degli Amici dei Musei – e proprio in
questo Studio, Raffaello Torricelli venne eletto
Presidente dell’associazione. Qui si organizzò
con Procacci la Mostra degli Affreschi Staccati
del 1957. E qui fu ideata con Luigi Bellini la
Mostra Internazionale dell’Antiquariato nel
1959. In tale occasione, a Gualtiero Volterra
sarebbe piaciuto di esporre i nostri affreschi nel
cortile di Palazzo Strozzi. Ma mio padre non fu
d’accordo: tutto l’arredo delle sue stanze era
stato cercato, comprato e restaurato con lo scopo
di esporre quei capolavori. Era felice di mostrarli
a chi desiderava vederli, in qualsiasi momento.
E per evitare equivoci, poco prima di morire
volle lasciare per scritto la sua volontà con la
speranza che nessuno la tradisse in seguito:
“Gli affreschi restano al loro posto”.
Ho avuto molta fortuna a vivere intensamente
quel periodo. Se i fratelli più grandi
conducevano ormai una vita indipendente, i due
più giovani erano bambini e nello Studio ci
venivano di rado. Io avevo vent’anni: l’età giusta
per presentarmi con i genitori e per fare gli onori
di casa. La vita sociale si svolgeva parallela al
nuovo impegno di Assessore: ai giardini,
all’istruzione, alla cultura, alle belle arti. Una
singolare carriera politica per un personaggio
decisamente apolitico, che doveva culminare
inaspettatamente nell’elezione a sindaco nel
1966. Il diluvio portò a compimento la
trasformazione dello Studio in luogo pubblico:
strappò dai cardini il portone. Il babbo interpretò
il segno e fece in modo che la sua casa fosse un
rifugio per tutti, centro di soccorso con libero
accesso giorno e notte. Inoltre, volle che la sua
abitazione non venisse ripulita finché ci fosse in
città un’altra casa ingombra di fango. Vi invitava
politici e giornalisti che altrimenti si sarebbero
recati solo nelle zone meno colpite, per non
sporcarsi le scarpe. Invece, per raggiungere il
Sindaco, si videro avanzare con fatica nel fango
Moro e Saragat, Ted Kennedy e Montanelli, il
ministro Taviani e il prefetto De Bernardt. Ma
non voglio dilungarmi su un periodo che sarà
spesso rievocato in occasione dei quarant’anni
dell’Alluvione. Proprio l’anniversario ha posto
lo Studio del babbo e la sua abitazione al centro
di una rinnovata attenzione. Sono stati
recentemente accolti nell’Associazione “Case
della Memoria”, trasformandosi in un piccolo
museo aperto regolarmente al pubblico. Gli
affreschi sono interessati da un procedimento di
notifica proposto dalla Soprintendenza per il
Patrimonio Storico Artistico. Inoltre, in
collaborazione col comune, vi si svolgerà, dal
5 novembre al 9 gennaio, una mostra
documentaria dal titolo “L’Alluvione e il suo
Sindaco. Un viaggio tra testimonianze e ricordi
nella casa di Piero Bargellini”, curata da mio
figlio Gregorio con materiale in gran parte
inedito, interamente proveniente dall’archivio
pazientemente riordinato e conservato nello
Studio. Sono omaggi resi possibili dallo stato di
conservazione di questi storici ambienti, rimasti
perfettamente immutati a ventisei anni dalla
morte di mio padre. Chi vi si reca oggi può
ritrovare al suo posto gli oggetti personali di
lavoro, la fratina dove sono state scritte decine di
libri e migliaia di lettere, le cassapanche colme
di volumi, gli armadi riempiti di manoscritti,
carteggi, fotografie. E la magnifica biblioteca:
qualche migliaio di libri di e su Bargellini, da lui
annotati o a lui dedicati dalle principali
personalità della letteratura e dell’arte. È un
lascito prezioso per i fiorentini. I maestosi
affreschi sono rimasti a proteggerlo, a far sì che
ignoranza e cupidigia non debbano mai spezzare
il fragile filo della memoria. Ho speranza che ciò
non avvenga. Sovente, dalla strada si sente la voce
di chi passa, e che alzando gli occhi dichiara
un’altra volta: “Questa è la casa del sindaco”.
Data recensione: 01/09/2006
Testata Giornalistica: I ‘Fochi’ della San Giovanni
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