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L’interpretazione del paesaggio come rappresentazione del territorio socialmente e culturalmente costruita ed in particolare come paesaggio della mente, piuttosto che come paesaggio percepito con gli occhi (che nasce

L’interpretazione del paesaggio come rappresentazione del territorio socialmente e culturalmente costruita ed in particolare come paesaggio della mente, piuttosto che come paesaggio percepito con gli occhi (che nasce secondo Raffestin nel momento in cui la territorialità che ha prodotto quel territorio si trasforma e tende a scomparire), ha portato di recente un gruppo di geografi italiani, coordinati da Egidio Dansero e Alberto Vanolo, a riflettere sul ruolo che i paesaggi così intesi assumono nell’attuale svolta vissuta dalle aree di antica industrializzazione, volte alla ridefinizione dell’identità industriale mediante processi di sviluppo locale. Se è vero che i paesaggi, in quanto rappresentazioni intenzionali e collettive, condizionano l’agire territoriale e, come afferma Dematteis, inducono le società a trasformare i territori, «conformemente ai codici delle rappresentazioni stesse», si può ritenere che la “messa in paesaggio” di un territorio costituisca una condizione non banale per la formazione di un sistema locale territoriale. In effetti, in assenza di una autorappresentazione condivisa e di una capacità di interpretazione e valutazione del territorio, è difficile che le società si mobilitino per conseguire una certa autonomia. Una rete locale non può organizzarsi e riconoscere, avere cura, valorizzare un patrimonio che nemmeno vede, di cui non ha coscienza, né memoria, al quale non attribuisce alcuna qualità e nel quale non si riconosce.Da questa ipotesi muove anche il volume sui paesaggi industriali della Maremma, condotto da studiosi di diversa estrazione disciplinare e curato da Massimo Preite, al quale si devono gli studi di fattibilità per i progetti di recupero delle principali aree minerarie toscane e l’elaborazione del Master Plan del Parco Tecnologico e Archeologico delle Colline Metallifere. Il volume, contemporaneo a quello di Dansero e Vanolo, offre una stimolante occasione di confronto sia sul piano della riflessione teorica che su quello dell’analisi empirica. Al pari dei geografi, gli studiosi coordinati da Preite si interrogano sul rapporto tra autorappresentazione e processi di patrimonializzazione, nella convinzione che il tramutarsi dei territori toscani in paesaggi della miniera, della geotermia e della siderurgia, il riconoscere loro un valore estetico, rappresenti il passo necessario per la loro elezione a beni culturali da salvaguardare.Per la salvaguardia, ovviamente, gli autori del volume intendono qualcosa di più della semplice conversazione del patrimonio indicato. Se si vuole evitare che il peso del passato diventi un fardello insopportabile, la tutela del patrimonio industriale, secondo Preite, dovrebbe assolvere piuttosto alla funzione di costruire nuove energie in vista di progetti collettivi, volti alla riappropriazione delle sorti del territorio da parte delle società locali. Invertendo la tendenza di aree, come la Maremma, in cui per lungo tempo sono stati gli altri a fare il destino del territorio locale, la salvaguardia del patrimonio dovrebbe mirare, in particolare, a soddisfare l’esigenza della soggettività locale di trovare nel mondo di ieri soluzioni e risposte ai problemi di oggi, in vista del conseguimento dell’autonomia del sistema locale.In questa prospettiva, il ruolo del paesaggio diventa quello di sostegno della memori a sociale, attraverso la quale, secondo Lowenthal, i resti della territorialità del passato in corso di trasformazione diventano patrimonio culturale per la società che in essi si riconosce. Attraverso la memoria sociale e le sue immagini, come il paesaggio, le società si autoidentificano, conferiscono valore di patrimonio ai resti industriali e disegnano il proprio avvenire in un rapporto di continuità evolutiva con il resto ereditato.Purtroppo in Maremma si è persa la memoria sociale del passato industriale. In questa terra, il crollo di memoria riguardo alla storia recente del lavoro industriale (forse connesso con il rifiuto dei figli di fare lo stesso mestiere dei padri), è tale che si potrebbe dire che la Maremma non possiede un patrimonio propriamente detto, se con questo termine intendiamo non solo i resti materiali, ma anche le testimonianze immateriali, depositarie di quei significati che hanno valore anche per il presente. Le testimonianze materiali ospitate in Maremma da sole non alimentano sedimenti di identificazione, né hanno alcuna capacità di gettare luce sui problemi del nostro tempo. Non svolgono cioè quella funzione che il patrimonio immateriale possiede, che è quella di ampliare la sfera della comprensione sull’attualità, prima ancora che di documentare un capitolo trascorso dell’economia del territorio. Secondo Preite, quanto più i resti del passato adempiono a questo compito tanto più diventano patrimonio collettivo su cui fondare progetti condivisi. Per farlo emergere occorre interrogare debitamente l’eredità materiale. La “conservazione” del patrimonio diventa “conversazione” con esso (per usare il gioco di parole di Marc Bloch), finalizzata a fare affiorare i contenuti immateriali condensati nelle sue forme tangibili.L’obiettivo prioritario del volume è pertanto quella di colmare lo strappo di memoria che gli autori osservano oggi in Maremma, cioè di contribuire ad edificare una memoria sociale in grado di ritrovare nelle testimonianze materiali e immaterriali della storia industriale un significato valido anche per le generazioni di oggi. A tal fine, gli autori interrogano il patrimonio con l’intento di ridestare le esperienze, le emozioni, la fatica, il dolore, le aspirazioni, i progetti e i desideri sigillati negli oggetti della storia industriale. Tentano di riannodare i fili con le generazioni del passato e di fare risaltare quei modelli di esperienza capaci di trasmettere una lezione ancora valida.Il racconto storiografico si snoda in tre sezioni, precedute dalla prefazione di Louis Bergeron, presidente onorario a vita di The International Committee for the Conservation of the Industrial Heritage (TICCIH) e dall’ampio saggio introduttivo di Massimo Preite. La prima sezione, dedicata alla siderurgia, ripercorre attraverso gli scritti di Angelo Nesti e Fabio Turcheschi, le vicende dell’industria del ferro tra l’Elba , Follonica e Piombino. La seconda, sull’attività mineraria, ricostruisce con i due saggi di Preite la vicenda mineraria novecentesca nelle Colline Metallifere. In questa sezione, Chiara Baldanzi e Anna Ferrari, Alessandra Casini e Davide Fantini studiano le iniziative di musealizzazione dei complessi minerari. La terza sezione, dedicata alle macchine, ricostruisce l’evoluzione tecnologica degli impianti metallurgici e minerari. In particolare, Gabriella Maciocco analizza le modifiche nel tempo delle innovazioni di processo nel trattamento dei minerali, mentre Leonardo Brogioni studi a i sistemi di trasporto del minerale.Di ogni miniera, stabilimento metallurgico, macchinario e infrastruttura gli autori forniscono una descrizione accurata della storia e del funzionamento, integrando il testo con piante, prospetti, particolari costruttivi e foto d’epoca, le descrizioni dei luoghi, dei saperi e delle tecnologie, sono incisive chiare ed efficaci, particolarmente utili per ricucire lo strappo di memoria lamentato da Preite e per svolgere un ruolo non secondario nella “messa in paesaggio” dei territori maremmani. Quest’ultimo compito è assegnato in particolare all’eccezionale corredo fotografico curato da Bernard Bay, direttore dell’Acadèmie des Beaux-Arts di Tournai e autore di campagne fotografiche nei principali bacini minerari europei. Il lavoro di Bay va oltre la costruzione di una fonte documentaria a corredo dei testi. Dove l’inquadratura si allarga oltre l’oggetto centrale della rappresentazione «si compie un’epifania» nel senso che l’immagine fotografica, «più che riprodurre ciò che è visibile, riesce a rendere visibili cose che altrimenti sfuggirebbero alla nostra attenzione: una di queste cose è appunto il paesaggio industriale».La genesi di quest’ultimo è rintracciata da Preite nelle suggestioni letterarie per esempio di Cassola e Bianciardi. Sull’onda dei fermenti letterari della metà del Novecento, questi scrittori individuano nel distretto minerario «la maggior impronta paesistica» della Maremma, a dispetto dello stereotipo di questa terra “ridente e pittoresca”, in cui compaiono solo butteri, bufali, briganti e paludi. Certo, nel loro sguardo non c’è «niente che preannunci il possibile tramutarsi del territorio minerario in paesaggio da salvaguardare, in patrimonio culturale da trasmettere», così come appare agli occhi dei contemporanei. Tuttavia, l’avere riconosciuto nelle miniere «particolari attributi di tipicità», se non ancora di qualità estetica, rappresenta il primo passo verso il loro riconoscimento come patrimonio.Nel passaggio dallo sguardo di pochi all’odierna rappresentazione collettiva, assumono valore paesaggistico persino gli “scarti”. Le roste, scorie della calcopirite nella miniera di Merse (Montieri) e i cumuli di sterili della miniera di Gavorrano, rappresentano «casi esemplari di transizione da non paesaggio a paesaggio, dai luoghi di assoluta assenza di valore estetico durante l’attività mineraria conclusa». Al pari delle miniere, anche la maglia tentacolare dei tubi della geotermia che imprigionano il vapore dei soffioni e i grandi impianti siderurgici di Follonica e Piombino sono diventati paesaggio; un paesaggio definito «mobile», in quanto «il confine tra ciò che  è diventato patrimonio e ciò che potrebbe diventarlo a medio o breve termine è incerto ed evolutivo», per la sua capacità di svolgere un ruolo attivo nella società contemporanea.
Data recensione: 01/09/2007
Testata Giornalistica: Rivista Geografica Italiana
Autore: Marcella Arca