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Il libro di Gianfranco Tusset su genesi e sviluppo della dinamica economica in Italia copre un vuoto nella riflessione sistematica su un tema sino ad oggi consegnato solo a studi parziali. Esso

Il libro di Gianfranco Tusset su genesi e sviluppo della dinamica economica in Italia copre un vuoto nella riflessione sistematica su un tema sino ad oggi consegnato solo a studi parziali. Esso inoltre segnala la necessità di ulteriori approfondimenti, per completare un quadro da cui appare ancora difficile eliminare elementi di eterogeneità e contraddittorietà. Tale eterogeneità sembra emergere immediatamente dall’argomento, dalle sue interne ripartizioni e dalle differenti componenti culturali e scientifiche da cui le riflessioni sulla dinamica sono scaturite. In questo senso uno dei meriti del lavoro di Tusset consiste proprio nello sforzo di riproporre non solo la riflessione sugli sviluppi più significativi in tema di dinamica economica ma anche, a grandi tratti, i complessi contesti scientifici e culturali entro cui quegli sviluppi sono maturati. È evidente che sarebbe piuttosto semplice ricondurre a omogeneità gli studi di dinamica economica, isolando le formalizzazioni più riuscite e utilizzandole come metro di giudizio al fine di costruire una casistica riconducibile a pochi elementi chiave. Tusset ha scelto la strada più difficile, dal momento che ha ricostruito (a mio parere con successo) l’emergere delle prime trattazioni in tema di dinamica economica, il graduale definirsi dell’oggetto di ricerca, l’affinarsi di strumenti e visioni in sintonia con la più chiara individuazione degli obiettivi perseguiti e, infine, il complicarsi degli studi di dinamica, attraverso la riflessione sul tema del cambiamento economico e la rivisitazione del rapporto tra economia e storia (una felice peculiarità italiana).
Questo approccio di Tusset emerge fin dalle prime pagine quando propone l’ipotesi di una differente collocazione temporale per ciò che concerne la genesi degli studi di dinamica economica, anticipandola, rispetto alla consolidata collocazione degli anni trenta del Novecento, al periodo compreso tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Come scrive nell’Introduzione: «In realtà, è a fine Ottocento, con le prime intuizioni sull’equilibrio dei sistemi in movimento da parte di Pareto, che ha avviato l’analisi dinamica, già ricca peraltro delle riflessioni sullo sviluppo ereditate dai classici. Anzi, come si cercherà di dimostrare, nei primi dieci-quindici anni del Novecento appaiono già sufficientemente esplicitate le problematiche teoriche attorno alle quali si consolideranno le principali correnti di ricerca sulla dinamica economica» (p. 11). Ovviamente una tale prospettiva interpretativa apre diversi problemi: in primo luogo sul piano della collocazione dei singoli contributi in contesti analiticamente significativi, in secondo luogo sul piano della definizione dell’oggetto di studio; in terzo luogo sul piano dei metodi e degli strumenti analitici utilizzati dagli autori presi in considerazione.
Perchè questa anticipazione comporta problemi rilevanti in riferimento ai contesti scientifici e culturali? Perchè anticipando la nascita della dinamica economica a quel periodo non troviamo solo una incerta definizione dell’oggetto di studio, ma anche un complesso universo di orientamenti scientifici che attraverso la critica alla visione dell’economia politica classica e la crescente insoddisfazione per i risultati prodotti dalla teoria dell’equilibrio economico generale in termini di ampliamento delle conoscenze della realtà del capitalismo contemporaneo, attraverso l’affermarsi di nuovi indirizzi scientifici (storicismo, sociologia economica) o il consolidarsi di vecchi orientamenti di ricerca (marxismo, evoluzionismo in campo sociologico) si pone il problema della dinamica come un elemento condiviso nelle scienze sociali del tempo.
In questa prospettiva le formalizzazioni e le analisi economiche in tema di dinamica (soprattutto Pareto, Maffeo Pantaleoni e Luigi Amoroso) paiono come la punta di un iceberg emergente da un contesto scientifico eterogeneo con un prevalente interesse per la dinamica economica, considerata come elemento centrale del cambiamento storico. Così in Italia, non diversamente da quello che succede in campo internazionale, le analisi di dinamica economica hanno matrici sociologiche (non è un caso che lo stesso Pareto sposti tale problema nell’ambito della sociologia), economiche (storicismo e marxismo, analisi del ciclo economico) e perfino filosofiche (Nietzsche e Bergson). Insomma, come opportunamentre messo in rilievo da Tusset, c’è un movimento complesso e variegato che, con strumenti differenti e con approcci diversi, pone al centro dei suoi interessi gli studi di dinamica, riverberandosi sulle riflessioni più propriamente economiche (basti pensare ad autori come Lampertico, Cognetti, Supino, Gini, Loria, Benini, Bresciani-Turroni, tanto per citarne alcuni). Questo fenomeno non è solo un fenomeno italiano, come sembra pensare Tusset (questo è l’unico punto su cui ho qualche perplessità relativamente alla sua ricostruzione), una sorta di ‘anomalia’ cui sarebbe da ascrivere quella perdita di rilevanza della cultura economica italiana emersa successivamente. Negli Stati Uniti, in Germania e nella stessa Inghileterra assistiamo a un analogo fenomeno, connesso con l’impetuoso sviluppo delle scienze sociali e l’urgenza di confontarsi con le trasformazioni della società contemporanea. Sarebbe lungo sviluppare in questa sede una riflessione approfondita sul ruolo della scienza economica italiana: qualche utile indicazione in tale direzione è emersa nel recente volume, a cura di Piero Barucci, Le frontierre dell’economia politica (Firenze, Polistampa, 2003), cui rinvio. Ora, se Tusset fosse partito da una definizione dell’oggetto di ricerca così come maturata negli anni trenta, la riflessione su questo complesso ed eterogeneo mondo sarebbe stata impossibile anche se sarebbe stato certamente più agevole classificare i diversi contributi. E, tuttavia, sono convinto che la rilevanza della riflessione su quell’interessante universo sia stata utile per cogliere sviluppi essenziali per la scienza economica italiana (penso a Gustavo Del Vecchio e Giovanni Demaria) che successivamente si sono misurati con il tema del cambiamento economico, riproponendo la centralità del rapporto tra storia ed economia. D’altra parte, proprio la prevalenza dei problemi dinamici entro contesti scientifici diversi costituisce un elemento essenziale per cogliere il passaggio dalla visione statica dell’equilibrio a quella dinamica, consentendo il recupero di elementi dinamici presenti nell’economia politica classica, nell’economia marxiana e nelle tante spiegazioni del ciclo economico che avevano arricchito la letteratura economica a partire dall’ultimo quarto dell’Ottocento. Inoltre, la ricostruzione di questo ricco sostrato scientifico e culturale rende più comprensibile l’analisi dei teorici italiani (Pareti e Pantaleoni) e stranieri (Scumpeter e, in generale, gli autori interessati all’analisi del ciclo) che riflettono sulla teoria dell’equilibrio dinamico in modi che saranno successivamente ripresi, a partire dagli anni trenta del Novecento, dalla dinamica europea.
Pareto e Pantaleoni danno - ancora una volta- il via al mutamento di prospettiva teorica. Il contributo del primo appare significativo su diversi versanti: in primo luogo, per il suo sforzo di costruire una teoria degli equilibri successivi, che illustra il gravitare del sistema economico attorno a una situazione di equilibrio; in secondo luogo, per le riflessioni (richiamate da Tusset) sulla inadeguatezza dello strumento matematico rispetto alla costruzione di una dinamica economica matematica (p. 28), con la contestuale enfasi sulle ragioni non economiche del cambiamento; in terzo luogo, perchè, a partire dalle annotazioni sulle crisi economiche, che egli matura nel contesto dell’economia applicata, sembra aprirsi alla teoria del cambiamento economico, lungo un percorso analogo a quello pantaleoniano. Pantaleoni infatti, mettendo a fuoco l’ipotesi di sistemi che non convergono verso posizioni di equilibrio, avvia quella riflessione sullo squilibrio economico che diventa l’architrave fondamentale della sua «dinamica del secondo genere».
Su tale base si specifica l’oggetto di studio della dinamica economica (cfr. il secondo capitolo Gli economisti italiani e il nuovo campo di indagine), al cui interno confluiscono approcci, metodi e strumenti analitici differenti. Non è un caso che il capitolo si apra con alcuni rilievi interpretativi definiti da Gustavo Del Vecchio che aiutano a liberare il campo da contrapposizioni teoriche e metodologiche che sono dovute più alla foga semplificatrice e classificatrice che talvolta sembra accumunare economisti e storici del pensiero economico, che all’intento di penetrare i fenomeni analizzati e di cogliere le scaturigini profonde e molteplici dei problemi analitici. Nell’idea di Del Vecchio della scienza come «opera collettiva», fondata su stratificazioni le cui fonti sono da rintracciare in antiche radici, non c’è la convinzione di uno sviluppo unilineare e di un continuismo di maniera in riferimento al progresso della scienza, nè la sottovalutazione del ruolo giocato dalle innovazioni teoriche, ma la sollecitazione a superare la pigrizia intellettuale di chi ascrive gli sviluppi scientifici a improvvisi cambi di direzione che, a un’indagine più approfondita, rivelano invece continuità e coerenza con antiche sfide. Così la contrapposizione tra approccio deduttivo e induttivo, tra teoria e storia diventano uno schermo che nasconde alla vista dell’analista tanto gli effetti sulla teoria delle trasformazioni profonde della realtà economica analizzata, quanto l’emergere di nuovi rapporti con la realtà dovuti alle innovazioni teoriche. «In effetti - rivela Tuset sulla scia di Del Vecchio - se l’economia ottocentesca non pone ai classici esigenze di analisi a carattere dinamico diverse dalla teorizzazione della circolarità o stazionarietà della produzione, la realtà economica e produttiva d’inizio Novecento pone alla teoria ben altre sfide, a partire dal maggior rilievo da attribuirsi a credito, moneta, accumulazione ossia a quei fattori che non possono essere teorizzati prescindendo dall’elemento tempo» (p. 73).
Il cambiamento economico diviene il tema centrale della ricerca in economia, sollecitando, in una circolarità impressionante, trasformazioni metodologoche, ridefinizione dell’oggetto di analisi, spiegazioni scientifiche. Ne esce una tensione epistemologica nuova (Tusset la definisce una «visione dialettica») tra elementi invarianti e cambiamenti che definiscono i nuovi percorsi scientifici (pp. 74 e ss.). Non è allora un caso che Luigi Amoroso, nella sua ricerca della spiegazione di un «equilibrio dinamico continuo», faccia ancora valere il suo riferimento alla meccanica razionale (ereditato da Pareto), cercando nella fenomenologia economica un corrispondente della «forza d’inerzia della meccanica» che possa consentire la costruzione di equazioni della dinamica economica sulla base di quelle dell’equilibrio statico (pp. 77 e ss.). Non è neanche casuale che egli trovi questa analogia inadeguata, poichè la «forza d’abitudine» (comparabile alla forza d’inerzia nella meccanica) rinvia a consuetudini, tradizioni (in una parola: alla storia) - secondo canoni interpretativi presenti nelle riflessioni dei rappresentanti della scuola storica tedesca dell’economia e dell’istituzionalisnmo - allontanando il modello di comportamento degli agenti economici da ogni forma di meccanicismo. Amoroso formalizza questo discorso attraverso un’equazione matematica che considera non solo il livello di soddisfazione acquisibile attraverso il consumo di un bene, ma anche gli effetti dei mutamenti delle abitudini, configurabili come «costi di aggiustamento» (pp. 79-81). Un passo di Amoroso - ricordato da Tusset - appare significativo in tal senso, poichè rivela che «le abitudini e le preoccupazioni incidono direttamente sulla nostra sensibilità, indipendentemente e talvolta anche in contrasto alla soddisfazione dei bisogni pro tempore» (p. 118).
Gli sviluppi successivi nel campo della dinamica si realizzano attraverso teorici come Bordin, La Volpe, Palomba, Fossati che Tusset considera come la «seconda generazione post-paretiana». I tratti comuni di questo gruppo di studiosi sono dati, oltre al riferimento conseuto alla concezione dell’equilibrio walras-paretina anche da una certa distanza dalle analogie meccanicistiche che avevano caratterizzato la prima fase degli studi dinamici e da una notevole «impermeabilità, anche se non identica in tutti gli economisti, agli schemi keynesiani». Tale distanza da Keynes è giustificata non tanto dal rifiuto dell’analisi degli aggregati, ma dalla volontà di «mantenere una sorta di ancoraggio ad un piano microeconomico proprio degli schemi di equilibrio generale» (p. 130). È difficile soffermarsi in dettaglio sulle loro analisi, ma sono interessanti i modi con cui questi autori, che pure paiono lontani da Keynes, alla fine sono costretti a ritornare su un tema centrale della riflessione keynesiana, quello dell’incertezza. Anche le innovazioni introdotte sul piano dell’analisi matematica (teoria delle probabilità e teoria quantistica) sembrano determinate dalla necessità di fare i conti con tale tema. In questo senso, mi pare particolarmente interessante l’analisi di Fossati con la sua enfasi sul «rischio dinamico», determinato da una «incertezza che scaturisce da eventi non prevedibili a priori in via assoluta e, quindi, insuperabile o non riducibile».
Con Gustavo Del Vecchio e Giovanni Demaria si entra in un’altra visione della dinamica economica. I due autori pongono esplicitamente il tema del rapporto tra economia e storia come chiave di lettura essenziale ai fini della comprensione del cambiamento economico. È evidente che non si tratta di eludere le problematiche peculiarmente economiche in favore di un sociologismo o storicismo non in grado di approdare a spiegazioni accettabili sul piano scientifico. Le ragioni di un approccio che accomuna i due autori sono richiamate da Tusset: la prima «si fonda sull’assunzione che il dinamismo dell’economia trova prevalente origine in eventi esterni al sistema economico, mentre le motivazioni economiche utilitaristihe non intervengono o giustificano solo una ridotta quota di dinamismo»; la seconda concerne la «natura teorica ossia particolare delle variazioni esogene, da cui consegue la necessità che la dinamica tenga conto della specificità delle stesse. Implicitamente viene rifiutata una concezione della dinamica economica costruita sull’analisi delle condizioni iniziali in quanto esplicative degli sviluppi successivi» (p. 156).
Non è casuale, in tale prospettiva, se la dinamica diviene il campo di osservazione privilegiato per valutare la capacità esplicativa di strumenti teorici in grado di raccordare analisi economica e trasformazione dei contesti sociali e istituzionali entro cui il momento economico gioca il suo ruolo. Tusset richiama giutamente un famoso passaggio di un saggio fondamentale di Del Vecchio, La costruzuione scientifica della dinamica economica, laddove si rivela che se è vero che le «teorie dinamiche» non sono in grado di oltrepassare «il confine non superabile della storia» (che può essere ricostruita solo attraverso analisi individualizzanti e non generalizzanti), è altrettanto vero che la rilevanza delle teorie dinamiche si misura sulla possibilità che esse offrono «di avvicinare per quanto possibile ad essa [la storia] la scienza economica» (p. 160).
Nello stesso modo il concetto di «esogenità» di Demaria individua una relazione ineliminabile tra lo studio dei fatti economici e la preliminare analisi dello «stato della realtà esogena su di esso dominante» (p. 179). Tusset si sofferma sulla difficoltà di interpretare la complessa riflessione di Demaria, per cui va adottato - secondo il mio parere - un criterio analogo a quello che egli utilizza nella spiegazione dei fatti economici. Così come Demaria ha sempre rifiutato ogni tentativo di spiegazione monocasuale dei fatti economici, sarebbe errato ricondurre il suo atteggiamento al prevalere di un solo orientamente scientifico all’interno della sua prospettiva analitica. Egli si è misurato, infatti, con la lezione di Del Vecchio e dello storicismo (a partire dalla lettura approfondita dell’opera di K.Knies), con il vitalismo bergsoniano e con la lezione di Heisemberg, ma ha piegato queste diverse influenze all’esigenza di spiegare il cambiamento economico come funzione del tempo, approdando a una sintesi originale in cui la storia gioca ruoli differenti: in primo luogo, è cambiamento del punto di osservazione; in secondo luogo è accumulazione di nuovi strumenti concettuali; in terzo luogo è un insieme di fatti ordinabili e spiegabili attraverso opportune sequenze logiche.
Nell’ultima parte del volume di Tusset trovano posto tutta quella serie di lavori, in alcuni casi pregevoli e originali, che per un verso indagano sullo squilibrio economico, come effetto inevitabile della dinamica, per un altro verso attribuiscono alla funzione imprenditoriale un ruolo centrale nella spigazione di esso. Anche su questo versante, in autori come Bresciani-Turroni, Fanno, Papi, ecc., le ipotesi interpretative si sviluppano entro il contesto di un dibattito internazionale molto vivace che coinvolge autori come Schumpeter, Sombart, Spiethoff, Hayek, Keynes.
Data recensione: 01/06/2005
Testata Giornalistica: Il pensiero economico italiano
Autore: Vitantonio Gioia