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«Viaggio per perdermi e per ritrovarmi. Forse alla ricerca di me stesso o forse per perdere quanto di me stesso non voglio più». Queste poche righe aprono il piccolo prezioso libro di Tito

IL LIBRO «Le nuvole non chiedono permesso» di Tito Barbini non è un taccuino per turisti ma una testimonianza civile e una ricognizione partecipata delle sofferenze e dello sfruttamento dei popoli

«Viaggio per perdermi e per ritrovarmi. Forse alla ricerca di me stesso o forse per perdere quanto di me stesso non voglio più». Queste poche righe aprono il piccolo prezioso libro di Tito Barbini: Le nuvole non chiedono permesso. Dalla Patagonia all’Alaska. Cento giorni a piedi e in corriera, editore Polistampa, pp. 168, euro 8,00. Le nuvole, proprio nel senso della «leggerezza» descritta in una delle più belle lezioni di Italo Calvino e nel senso di una libertà della mente e del cuore che nessuna costrizione può imprigionare. Con questo viaggio straordinariamente condensato nelle pagine del suo libro m’è sembrato che Tito Barbini abbia voluto prendersi una lunga pausa per restare solo con se stesso a ri-ascoltare quella «legge morale» che, kantianamente, ha sempre avuto dentro di sé. Il suo, infatti (almeno, così, da lettore l’ho inteso) è una sorta di diario intimo dei sentimenti, suscitati e riscoperti, tappa per tappa nel corso del lunghissimo viaggio che, a piedi e in corriera, lo ha condotto attraverso l’America Latina, passione e dolore, poesia e speranza della nostra gioventù.
Questo giovane sessantenne dal passato di fine e sensibile uomo politico e di amministratore, s‘immerge in realtà di sofferenza e di lotta, mescolandosi con gli abitanti dei paesi che attraversa, vivendo con loro, tenta di capire e di dirci quello che noi, dal ghetto della nostra opulenza, distrattamente riusciamo solo a intuire. Una decisione maturata nel tempo, la sua, un bisogno insopprimibile di fare i conti con se stesso. E così, dopo averne parlato con la famiglia, ha deciso di iniziare il lungo viaggio per ritrovare le ragioni di un‘intera esistenza. Un itinerario lungo tre mesi che lo porterà dalla Patagonia all‘Alaska. Il bagaglio è leggero. Cento giorni con uno zaino e poche cose essenziali, fra queste un paio di libri, come Moby Dick e la «politica» la passione della sua vita. La porta con sé per non perderla, anzi per ritrovarla nelle sue essenziali ragioni originarie.
La porta d’ingresso dell’appassionante viaggio è il Cile di Pablo Neruda, di Salvador Allende e di Victor Jara il grande cantante-poeta torturato e assassinato a colpi di pistola nello Stadio nazionale del Cile pochi giorni prima del quarantunesimo compleanno. E ancora l’Argentina dei generali; la Bolivia di Evo Morales e, salendo salendo, varcato il Canale di Panama, ecco il Mexico, e poi Los Angeles, Vancouver.
Proprio come i grandi viaggiatori d’un tempo. Il suo non è un viaggio di piacere o per soddisfare la curiosità del turista. È un viaggio per conoscere, per tentare di capire realtà, popoli, Paesi e, attraverso loro, capire se stesso. Il suo, però, è anche un viaggio nella memoria dalla quale emergono immagini tenere e forti allo stesso tempo: la prima volta che a nove anni, il babbo lo portò al mare, o la bellissima immagine di Tito Barbini eletto sindaco del suo paese che, alzando la testa, scorge il padre in un angolo nascosto tra la folla che piange, vedendo in quel figlio il riscatto di una vita di duro lavoro e di orgogliosa lotta per l’emancipazione sua e della sua classe.
La Memoria, dunque. È ancora Italo Calvino a darne una definizione straordinaria: «La memoria conta solo se tiene insieme l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di diventare senza smettere di essere e di essere senza smettere di diventare». Mi sembra proprio questo il senso della ricerca di Tito Barbini che in queste pagine ci conduce nella casa di Neruda (la «Chascona» dal nome che aveva dato all’amata compagna) al palazzo della Moneda ormai restaurato. Barbini ci fa conoscere le ragioni del processo che ha opposto i coniugi «mapuche» Attilio e Rosa Curinoco alla «United Colors» di Luciano Benetton che, comprando novantamila ettari in Patagonia, li ha privati della terra nella quale vivevano da sempre e, con loro, i popoli «mapuche» che l’abitavano. E co fa conoscere la condizione della «classe obrera» in Patagonia, ci porta a Bariloche e poi ancora verso le Ande e subito dopo verso il deserto di Atacama, ci conduce nell’Inferno di sale di Natalio, con l’immagine dell’uomo piegato a scavare che compare in copertina. E ancora ci parla della magia di Cuzco e del Machu Picchu, o della tradotta per Lima, offallata da un’umanità oppressa ma indomabile. Ma, soprattutto, con le orgogliose parole delle Madri di Plaza de Majo ci ricorda che «L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona». Ecco perchè loro, quelle madri, continuano la loro lotta. Infine il ritorno a casa, felice di aver mantenuto la promessa del suo viaggio interiore.
C’è ancora qualcosa, però, che abbiamo letto in queste pagine percorse e intrise da una parola che, seppur non esplicita, è sempre sottesa: Giustizia! Senza la quale le altre parole - democrazia, pace, libertà - perdono il loro senso. Giustizia per i popoli della terra, per i miliardi di esseri umani derubati e privati di tutto. Hans Jonas sostiene che tutti, qui e ora, siamo responsabili di ciò che accade nel nostro pianeta. Il libro di Tito Barbini ci aiuta a ricordarlo.
Data recensione: 08/11/2006
Testata Giornalistica: l’Unità
Autore: Renzo Cassigoli