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La volontà di serbare memoria dei cento anni dalla nascita di Fernando Farulli non basta a dare ragione di questa mostra...

La volontà di serbare memoria dei cento anni dalla nascita di Fernando Farulli non basta a dare ragione di questa mostra a Pontassieve (La fabbrica gli operai, la pittura, inaugurazione 25 novembre ore 16, aperta fino al 3 marzo 2024), la diciottesima della collana ‘Le colonne’. Nel progetto sotteso all’esposizioni ordinate nella piccola ma elegante sala del municipio aperta sulla piazza, la mostra attuale di Farulli s’inserisce nel novero di quelle che, intervallate da rassegne d’artisti giovani, intendono rammentare figure eminenti del panorama delle arti in Italia nel Novecento, fino ai tempi odierni. Fernando Farulli era comunista e – al pari di molti altri artefici, suoi consentanei, nati intorno al 1920 – visse la stagione fervida del secondo dopoguerra con l’entusiasmo di chi, recuperata una libertà fin allora repressa, poteva finalmente dare sfogo alla creatività senza dover dar conto a nessuno delle proprie personali scelte. Gli artisti legati in vario grado al Partito Comunista Italiano si divisero – specie nella seconda metà degli anni quaranta – fra coloro che recuperarono istanze linguistiche libertarie (volgendosi a un’espressione astratta) e coloro che invece scelsero la via del realismo, ch’era poi quella preferita dal Partito. Il clima era naturalmente rovente e la controversia veniva sentita talora come una lacerazione. Oggi però viene di dire: che tempi… Tempi in cui la passione trascinava anche in rotture burrascose; ma tempi capaci, sempre, d’infiammare la creatività, in virtù appunto d’una competizione fra uomini che, pur condividendo la medesima ideologia politica, divergevano non solo sul piano espressivo, ma anche sul metodo più efficace d’educazione e d’approccio al popolo. Parole datate, quelle dette finora; e, alla fine, fors’anche poco comprensibili nella valenza d’allora. Ma chi fa il mestiere di storico non può purgare il vocabolario di quei lemmi che risultino invisi al suo tempo: e dunque antifascismo, resistenza, servizio al popolo. Parole oggi appena sussurrate, giacché pronunciarle significa spaccare l’Italia. D’altronde anche allora la divisero. E tuttavia quel popolo – giustappunto –, mezzo comunista e mezzo democristiano, ricostruì un Paese sfasciato dalla guerra, grazie all’impegno di coloro che la politica, anni prima, l’avevano praticata rischiando la galera o addirittura finendoci. Esempi morali per la mia generazione. Esempi che purtroppo sono stati fatti dimenticare ai nostri figli; in balia d’altri modelli e d’altri uomini, che non avremmo neppure creduto potessero guadagnarsi il titolo di “onorevoli”. Antifascismo, resistenza, educazione del popolo, erano invece concetti ben vivi negli artisti che, come Farulli, concepivano l’arte alla stregua d’uno strumento per comunicare con la gente ed emancipare anche coloro ch’erano ai margini della società. Sulle strade da battere – s’è detto – c’era dissenso forte. A Firenze – dovendo ora per brevità semplificare – da una parte c’erano gli ‘astrattisti classici’ (con Gualtiero Nativi e Vinicio Berti in testa), dall’altra i realisti, di cui Farulli era esponente di spicco. Quasi della stessa età (Farulli, del 1923, era di due anni più giovane), i tre s’erano nel 1947 trovati nella stessa barca, al tempo di ‘Arte d’Oggi’. Ma, poco dopo, Fernando imboccò il suo divergente percorso. Facendo i loro nomi insieme, mi piace rammentare che nel 1981 tutt’e tre donarono i proprî autoritratti agli Uffizi nella circostanza del quarto centenario della Galleria. Vinicio Berti portò un autoritratto del 1941 (ancora connesso – quantunque spregiudicato – a una figurazione naturalistica) e un altro, giusto del 1947, già fortemente segnato da quell’astrazione espressionistica che distinguerà tutta la sua produzione. Gualtiero Nativi ne donò uno ad acquaforte, del 1943, e uno a olio, del ’46, a suo modo veridico, ma già con quelle campiture compatte di colore che poi si stenderanno senza più relazioni con la realtà. Farulli in quell’occasione fece dono di un grande autoritratto dipinto negli anni 1963-1964: una sagoma di cromia acre su cui s’impianta (come fosse saldata da un fonditore in una fucina ro vente) una testa scostante, in cui solo spiccano la rima stretta e serrata della bocca e due occhi d’allucinata fissità, contro un fondo dilavato di tinte colate. Il ritratto è un’effigie che riesce a trasmettere il piglio fiero e ardente del volto di Farulli; ma certamente si tratta d’un attestato veridico della maniera di lui. È un’opera informata a quel timbro espressionistico, intenso e drammatico, ch’è quasi distintivo del suo linguaggio. Il precoce e spiccato interesse di Fernando per l’espressionismo tedesco dev’essere maturato negli anni del suo discepolato con Pietro Parigi. La xilografia – tecnica prediletta di Pietrino –, sortendo segni netti e talora perfino duri, è infatti tale da lasciar presagire una sua influenza sulla propensione di Farulli per le creazioni aspre e scabre degli artisti tedeschi. Rammento soprattutto i nudi di donna (di forme tornite e sensualità generosa) a testimoniare il segno di lui, magistrale e spavaldo. Nudi di momenti diversi: dagli anni cinquanta – di più manifesta adesione allo spirito ‘Die Brücke’– agli anni settanta/ottanta – dove le antiche predilezioni per l’espressionismo sono decantate in una figurazione trasognata e pur sempre vibrante. A me però – che sono nato e vissuto, fino al 1966, a Piombino, città che Farulli elesse a dimora del suo impegno nel sociale – risulta impossibile non concentrarmi ora sulle opere legate a quella sua esperienza pluriennale; segnatamente rappresentata da paesaggi urbani e di fabbrica. Piombino era una città operaia e tuttora, a dispetto delle contingenze, vorrebbe esserlo; ma non si ha idea di quanto lo fosse negli anni in cui Farulli instaurò con essa un legame così stretto da sembrarne, lui, quasi figlio. Una città dove il settanta per cento degli abitanti votava per il Partito Comunista. Un laboratorio della cultura operaia, appunto. Ancorché fossi allora adolescente, ricordo con lucida memoria i dibattiti nelle ‘Case del popolo’, le mostre di pittura organizzate in una palazzina chiamata ‘Circolo dell’Ilva’, poi dell’Italsider, poi delle Acciaierie. Rammento però anche le difficoltà di mio padre, docente di lettere e critico d’arte, che comunista non era. Amato e detestato dai suoi tanti amici per lo più (inevitabilmente) comunisti, soffrì molto per il confino nella categoria – vituperata e a lui peraltro radicalmente estranea – dei ‘borghesi’. Eppure non si può avere idea – in questo nostro tempo, tiepido di pensieri e squassato da polemiche balorde – quanto trasporto ci fosse in quelle discussioni. Le stanze nebbiose di fumo di sigaretta. Le luci al neon sui soffitti, accese fino a notte fonda. Gl’insulti gridati a chi si mostrava in disaccordo. I tavoli di presidenza coi quattro notabili della segreteria del partito che vigilavano sull’ortodossia delle idee professate in sala; e tanti uomini della fabbrica accaldati su temi che altrove avrebbero interessato soltanto gl’intellettuali. E, fuori, la notte. Che d’improvviso s’incendiava per la colata dell’acciaio; e le case operaie, a ridosso dello stabilimento, per un attimo s’arrossavano; per poi tornare nel buio. Questa descrizione non l’ho però fatta a caso. Bisogna avere in mente questi luoghi e queste situazioni per capire cosa successe fra Piombino e Farulli, per capire come nacquero i quadri di Fernando con le vedute della fabbrica, coi paesaggi polverosi che le crescono intorno, con le facciate annerite di pulviscolo, con le ringhiere in città róse dalla ruggine. Bisogna immaginarsi quelle notti con le sirene alte che annunciavano i cambi di turno, quegl’improvvisi bagliori, quei tonfi sordi, per comprendere fino in fondo l’umanità mitica che lui si figurava quando – nel ciclo dei ‘Costruttori’, per esempio – ritraeva gli operai dentro scafandri ammaccati e celava i loro volti dietro visiere a specchio che rimandavano i bagliori delle fiamme. Un mondo che solo una pellicola espressionista come Metropolis può aiutare a rappresentarsi; un mondo da leggenda moderna; il mondo del comunismo operaio. Farulli avverte che Piombino è il luogo della sperimentazione politica secondo i parametri della sua ideologia; ma è anche il luogo della sua personale sperimentazione linguistica. Piombino è il suo atelier e la sua fucina. Un atelier popolato di modelli ideali per dare carne alle sue convinzioni sociali. Il connubio fra Piombino e Farulli mi riporta alla mente un’altra fruttuosa unione sperimentata dalla città della Maremma livornese: quella occorsa nella seconda metà del XV secolo fra Andrea Guardi, artista rinomato dell’Umanesimo toscano, e Jacopo III Appiani, che di Piombino fu Signore. Da quella relazione nacquero sculture e architetture, realizzate dall’artista (in città e negl’immediati contorni) per il suo mecenate; il quale fra l’altro gli dette ordine di progettare, sull’acropoli, un palazzo e una cappella preziosa, affacciata sulla piazza chiusa dal palazzo medesimo. Tutto a strapiombo sul mare. In quel caso è un Signore del Quattrocento che si sceglie un artefice appositamente perché gli crei un castello, una corte e una città abbellita da creazioni nuove. Sulla metà del Novecento è invece un artista – Farulli – che si sceglie una città per farle incarnare gl’ideali e le utopie di un’ideologia da cui molti (e Farulli tra loro) s’aspettavano la redenzione laica dell’uomo. Di quella città l’artista dipinge l’anima: i capannoni della fabbrica (le cui cimase si disegnano su cieli sovente rabbuiati di vapori artificiali), le ciminiere (che, drizzandosi proprio accanto a quei capannoni, hanno le sembianze di campanili di chiese metafisiche), le braccia dinoccolate e possenti di gru piantate nel fuoco delle colate, le case grigie senza finestre dei lavoratori. E, finalmente, Farulli dipinge gli uomini che popolano quella città. La loro è una stirpe d’automi. Le fisionomie loro sono celate alla vista da caschi e visiere. I loro corpi sono di complessione geometrica, giacché sempre (o quasi) si stagliano come sagome nere su fondali rossi di fuoco o bianchi abbaglianti, com’è l’acciaio incandescente. Uomini che si manifestano senza volto. Epifanie d’eroi anonimi. Ma sono gli uomini che Fernando conobbe bene frequentando i loro ambienti (in fabbrica e per le strade di Piombino): gli stessi che un grande fotografo di lì, Renzo Chini, aveva effigiati e pubblicati in un libro titolato appunto Ritratti piombinesi. Farulli non dipinge quelle fattezze, rappresentate dal fotografo in lirici bianco/ nero; ma la sua osservazione, ancorché non lenticolare come quella dell’occhio fotografico, è parimenti drammatica e nel contempo introspettiva. Una visione ch’è stata condivisa da un altro fotografo piombinese, più o meno coetaneo di Chini, Enzo Della Monica; che a quell’epoca realizzò numerosi scatti fotografici sulla condizione sociale della città; di tanto in tanto addolciti da immagini poetiche di pinete e belle spiagge, che di lì a poco sarebbero state tuttavia aggredite dall’avanzare della fabbrica. Ai giorni d’oggi un altro fotografo piombinese, parimenti grande, Pino Bertelli, ha esercitato le sue qualità d’artista sui volti di chi a Piombino abiti o sia nato. N’è uscito in quest’anno 2023 un volume di ritratti segnati non solo dalla fatica del lavoro, ma dal malessere di un’esistenza condotta in un luogo che, ormai, più non vanta il primato della classe operaia. Sono visi non di rado sorridenti, eppure velati da un’ansia latente per il timore della perdita del lavoro, per la precarietà della cassa integrazione, per l’incertezza del futuro. Il libro bello e severo che Bertelli n’ha cavato ha lasciato talora un poco d’amarezza in chi a Piombino ha reputato che quelle donne e quegli uomini si offrissero in patente collisione con l’attuale forzata vocazione turistica della città (giocando pertanto un brutto tiro all’immagine, come si usa dire) oppure, più sotterraneamente, si facessero attestati veridici e inconfutabili della caduta d’un mondo che aveva vissuto giorni epici. Un’epica di cui Fernando Farulli è stato, per sua scelta, testimone lirico. Lui, che oggi può essere rammentato come il cantore ispirato e vibrante d’un mito di cui a Piombino rimangono, nella spianata a ridosso del mare, presse gigantesche e possenti fabbricati di lamiera: monumenti isolati d’uno splendore tramontato. Di cui forse domani resteranno solo gli esiti poetici del pittore.
Data recensione: 18/11/2023
Testata Giornalistica: Cultura Commestibile
Autore: Antonio Natali