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Il pensiero superficiale è probabilmente un segno distintivo dei nostri tempi. Di decennio in decennio, di anno in anno, lo spazio specifico del…

Il pensiero superficiale è probabilmente un segno distintivo dei nostri tempi. Di decennio in decennio, di anno in anno, lo spazio specifico del sentire contemporaneo sembra essersi sempre più assottigliato a una minimale epidermide nella quale risolvere integralmente l’esperienza esistenziale. Sulla superficie. Il pensiero superficiale nell’arte e nella cultura contemporanea (Polistampa, 2023, ndr) cerca di metter insieme tutti gli indizi, i segni e i passaggi che, dalla metà dell’Ottocento fino ad oggi, hanno accompagnato un percorso che, in un certo senso, ha costantemente eroso pluridimensionalità e profondità del sapere e dell’azione umana. Come dimostrare brevemente questa tesi? Si pensi alla velocità e alla semplificazione a cui è necessario sottoporre ogni messaggio e ogni contenuto della nostra vita, oppure gli articoli che riportano il tempo di lettura, esempio di come l’informazione viaggi in superficie e persino le regole dell’approfondimento debbano sottostare a quelle di rapidità e immediatezza. Ma anche l’interesse per rivestimenti e decorazioni, spesso abilmente orchestrati al fine di agghindare e nascondere strutture sottostanti di diversa materia. Casi che evidenziano quanto conti più lì’esteriorità delle due dimensioni osservabili che l’autenticità di “ciò che sta sotto”. Da questo discorso si può passare a quello dell’aspetto, ugualmente limitato a una società dello spettacolo che, come insegna Guy Debord, è gradualmente slittata dalla varietà dell’essere, attraverso il domino del possedere, fino all’odierno apparire. E cosa dire del discorso politico attuale, in cui lo slogan, impostato similmente sulla brevità del tweet, ha una forza dirompente di convincimento incredibilmente maggiore rispetto a qualsiasi approfondimento? Tutto ciò che rallenta e mostra le cose in prospettiva viene scartato a favore dell’immediatezza superficiale. Elementi, questi, che riguardano la contemporaneità: un’esperienza preparata dall’Ottocento e posta in essere dal secolo appena passato, fino ai giorni nostri. Si può notare come la superficie pervada tanto gli spazi e le forme rappresentative del vivere comune (decorazione, bidimensionalità, appiattimento sintetico), quanto lo spessore del sapere, della comunicazione, delle informazioni, andando a scomodare direttamente il termine negativo di superficialità. Eppure il tenttivo di tanti artisti e pensatori del secolo scorso, come anche quello di questo libro, è coinciso con l’aspirazione a mostrare una profondità della superficie e un carattere positivo di questa dimensione che, alla maniera della leggerezza di Italo Calvino, non deve necessariamente identificarsi con frivolezza o stupidità. Calvino stesso è un’importante guida quando in Palomar lasica affermare al suo protagonista che “solo dopo aver conosciuto la superficie delle cose, ci si può spingere a cercare quello che c’è sotto. Ma la superficie delle cose è inesauribile”. Anche se, in verità, tutta la riflessione è scaturita dalla creatività “cosmetica” e postmoderna di un profondissimo superficiale come Alessandro Mendini, quando asserisce che “la parola cosmesi non è una parola negativa, indica l’accettazione che il rapporto con le cose e con la vita è molto spesso superficiale. Si traduce in un’attenzione orizzontale, non in una ricerca profonda, ma anche la superficialità ha la sua profondità se capita e accettata come difficoltà profonda della vita umana”. Cambiando i punti di vista canonici, la superficie consente di cogliere un’ampia estensione, mentre, d’altra parte, una visione profonda della realtà limita il movimento ad un’area eccessivamente ristretta. Si tratta sempre di compromessi tra scelte inconciliabili e l’azzardo di questo saggio è stato quello di mantenere costantemente un doppio discorso, contenutistico e formale. Superficie è dunque superficialità e semplificazione semantica, sintesi, assottigliamento, ma superficie è anche la riscoperta di una figurazione (di fatto molto antica) sempre più bidimensionale e costruita sulla pelle del supporto, riscontrabile nell’estetica realista, impressionista, cubista e astratta, dal tardo Ottocento in poi. Da un lato quindi i filosofi che per primi contestano le polarità di forma e contenuto per riconoscere nell’apparenza dell’esteriorità l’unica dimensione possibile del sapere, dall’altro, gli eroi inetti di Svevo, Mann e Musil che, grazie alla propria incompetenza alla vita, riescono ad allargarsi a tutte le espressioni della contemporaneità, come una superficie di poco spessore ma grande estensione. Sulla superficie è comunque, soprattutto, un libro di storia dell’arte, impegnato a fare la cronistoria del graduale smantellamento della prospettiva rinascimentale, alla riscoperta della piattezza (la flatness tanto cara al critico Clement Greenberg), unica vera e propria dimensione del dipingere. Accanto alla pittura emergono anche linguaggi scultorei, istallativi e fotografici che hanno trovato nell’esiguità della pura epidermide un reame di ricerca originale e inesauribile.
Data recensione: 01/07/2023
Testata Giornalistica: Espoarte
Autore: Gabriele Salvaterra