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L’abito? Fa il monaco, eccome. A dispetto dei motti popolari il modo di vestire rivela molto di noi oggi come mille anni fa. E questo vale anche per chi, come i monaci, all’abbigliamento affida e

L’abito? Fa il monaco, eccome. A dispetto dei motti popolari il modo di vestire rivela molto di noi oggi come mille anni fa. E questo vale anche per chi, come i monaci, all’abbigliamento affida e affidava il compito di esprimere valori e regole essenziali. «Quando l’abito faceva il monaco» è il resoconto dettagliato e godibile dei 62 «figurini» monastici dipinti a metà Settecento e conservati al Museo Diocesano di Santo Stefano al Ponte a Firenze, resoconto che due appassionati di arte come Lara Mercanti e Giovanni Straffi hanno presentato in un volume fresco di stampa. Il libro si rivela doppiamente prezioso perchè, oltre a costituire una miniera di informazioni sull’evoluzione dell’abito religioso e sul suo significato simbolico e sociale, costituisce anche un modo pratico per vedere i «figurini». Il museo, infatti, è aperto al pubblico un pomeriggio a settimana ed espone solo una trentina dei 62 pezzi che costituiscono l’eccezionale collezione, mentre il libro propone una scheda completa per ognuno di essi, compresi quelli parcheggiati in deposito.
L’analisi dei ritratti dei monaci - riprodotti a figura intera su pergamena acquerellata - rivela che a dipingerli fu con ogni probabilità un unico autore (rimasto anonimo) un monaco ospite della Badia Fiorentina (dove le miniature sono state conservate fino al 1995) o forse un pittore professionista al quale era stato affidato il compito di documentare gli abiti dei vari ordini monastici esistenti e soppressi. Una richiesta, quest’ultima, non insolita in un’epoca che amava la classificazione e che non aveva altro mezzo per creare archivi di immagini. Ma la volontà di dare vita a una collezione di figurini con i vestiti dei monaci aveva anche un uso pratico: serviva come «libro fotografico» per chi, quei vestiti, era chiamato a realizzarli concretamente e che, guardando gli acquerelli, sapeva subito quale abito riprodurre per l’appartenente a un determinato ordine monastico.
Spigolando nella messe di informazioni raccolte da Mercanti e Straffi si scopre, per esempio, che mentre il mantello era ammesso per coprirsi quando si usciva dal convento, i guanti erano proibiti perchè segno di ricchezza e autorità. Curioso anche l’uso della biancheria: la camicia sotto la tonaca era fatta di pelo di capra (il più ruvido al mondo) così da «mortificare» chi la indossava. Chissà se usavano lo stesso tessuto anche per fabbricare le mutande, visto che fino alla fine del XVII secolo i monaci non le portavano avendole definite «immorali».
Data recensione: 12/10/2006
Testata Giornalistica: La Nazione
Autore: Francesca Cavini