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«ACHILLE pieveloce e la tartaruga». Il paradosso di Zenone d’Elea eleggibile ad emblema del carteggio tra Antonio Pizzuto e Vanni Scheiwiller, Le carte fatate, che è appena uscito nei Libri Scheiwiller per la cura assai precisa di Cecilia Gibellini (e prefazione di Ricciarda Ricorda). Quindici anni (1960 - 1975), che significano quasi tutti i libri di Pizzuto, da Sinfonia a Testamento, da Ravenna a Paginette (due titoli riproposti nel 2002 dalle Edizioni Polistampa cui sono seguiti nel 2004 Signorina Rosina e Sul ponte di Avignone n.d.r).
Da una parte uno scrittore «leggendariamente arduo», per usare le parole di Contini, di cui è qui testimoniata la prima annunciazione («Hai un nuovo patito pizzutista: Contini!!! Evviva»). Dall’altra un editore meravigliosamente guitto e intraprendente. Da una parte lo scrittore che parla delle sue creature di carta con la perfetta consapevolezza del procedere lenticolare, dall’altra l’editore che parla del suo lavoro con l’ilare coscienza di un mestiere fatto «da dilettante e bucaniere».

Da Roma l’ex questore coltissimo, il pensionato per lo più stanziale in cerca dei suoi venticinque (buonissimi) lettori. Da Milano (o dai molti altrove) il giovane figlio di Giovanni che ha rilevato l’impresa del padre cui sta imprimendo il suo genio di segugio in microlibri «non tascabili ma taschinabili». La sproporzione è vistosa, ma l’affinità addirittura evidente. Pizzuto ha il culto del «lento pede», tesse l’elogio della «velocità minima», ama il procedere minuzioso e sghembo di una scrittura antigerarchica, rivista fino al ne varietur più tassativo: una volta la raccomandazione a non modificare nulla («neppure una virgola»), un’altra la dichiarazione di un’impossibilità priva di deroghe («Con la mia coscienza artistica non so né posso diluire, annacquare, a nessun patto»).
Con l’orgoglio di un catalogo prestigioso («Nonostante tutto ho la presunzione di avere il più bel catalogo di poesia del ’900 in Italia»), Scheiwiller si muove come una trottola coltivando la prodigiosa capacità di cogliere briciole sotto le mense di editori epuloni. Ma i due sono fatti per piacersi.Dopo le prime battute di ovvio riserbo ma già anche di vivace intimità, di lettera in lettera (sono in tutto 275) la complicità sale di tono e dopo tre soli mesi è Pizzuto a proporre il tu confidenziale, figurandosi un po’ padre (ma anche un po’ figlio) dell’affettuoso interlocutore che via via battezza «petrarcone irrequieto», «editore motoperpetuo», «Perpetuum mobile», «Agit-prop» oppure, con evidente riferimento a certe antifrastiche autodefinizioni che lo stesso Scheiwiller si è dato, «bucaniere» o «miliardario».
Senza contare il gioco dei doppi scherzosi con cui i due corrispondenti si epitetano a vicenda: Scheiwiller tuttofare è il «caro fattorino», Pizzuto il «caro sig. Pofi» o il «caro Pofi», dal nome del protagonista di Si riparano bambole, il secondo dei libri (dopo Signorina Rosina) pubblicati da Lerici. Lo scherzo è frequente. Soprattutto sulla discontinuità e sulla brevità delle lettere di Vanni che Pizzuto lamenta in forme spesso spiritose: «Grazie della gradita lettera (chiamiamo pure così le tue dodici parole, che ne fanno una delle più prolisse da te inviatemi)».
Ma anche attraverso vere e proprie dichiarazioni d’ansietà: «Mi bastano dei veni-vidi-vici, non lunghe pagine». Amante di calembour, Scheiwiller non resiste alla tentazione di liquidare il conformismo di certi letterati con trovate al vetriolo (Repaci che diventa Crepaci, Falqui che diventa Catafalqui). Amante di parole bizzarre, Pizzuto inventa in compenso neologismi come «vezzolanicabile», «piantagionieri», «prucustarveli», «sceivillero», «bernaccarmene». Tutt’e due disegnano tricicli, pseudotricicli, pesci con la pipa, accompagnando le lettere con piccoli supplementi di leggerezza e di malizia.

Discorrendo di libri, premi persone, critici, scrittori, è specialmente lungo le 159 lettere di Pizzuto che va delineandosi una poetica espressa in modi colloquiali, fresca di registri e immediata di conio: l’intraducibilità di Joyce e di Rabelais, una traduzione giovanile di Kant, le delizie dello Shakespeare letto (fluently) in originale, le bucce riviste a questo e a quel critico, la differenza fondamentale tra il narrare e il raccontare («Narrare ha un’estensione incommensurabilmente maggiore del raccontare, e dello stesso narrare un fatto»).
Ma poi anche scorci e ritrattini che insaporiscono di cose viste un carteggio quasi tutto di libri e di scritture. Dopo un pranzo in trattoria, ad esempio, la figurina lievemente incisa in una sorta di strepitosa e solitaria bolgia gastronomica: «Grazie ancora per il pranzo, un’oretta così dolce e tranquilla come a leggere presso un abat-jour rosato standosene in una poltrona, piedi sul tappeto. Non so se avrai osservato, alla tavola presso la nostra, quel commensale magro quanto un osso, e incredibilmente vorace: ha mangiato placidamente circa un quintale di roba, dimagrendo vieppiù ad ogni boccone. Prosciutto e cozze, bistecche e piattoni, dove andassero a finire solo il barone di Münchausen potrebbe dircelo!». Delizia di un croquis.
Data recensione: 19/03/2005
Testata Giornalistica: TuttoLibri/La Stampa
Autore: Giovanni Tesio