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L’editore Polistampa, scopritore di nuovi talenti, pubblica Millepiedi di Francesco Luti. Si tratta d’un romanzo di formazione, dall’andamento sinuoso: ricco di

L’editore Polistampa, scopritore di nuovi talenti, pubblica Millepiedi di Francesco Luti. Si tratta d’un romanzo di formazione, dall’andamento sinuoso: ricco di ramificazioni. John Barth, agli inizi de L’Opera Galleggiante si chiedeva: «Come si fa per scrivere un romanzo? Voglio dire come è possibile dar vita a un racconto, se si è estremamente sensibili al significato delle cose?». E Nabokov, in una lezione tenuta all’Università di Cornell nel 1955, affermò: «il solo scopo dello scrittore, alla fine, è sviare il senso comune e mandarlo in frantumi con qualche particolare sinistro imbarazzante». Queste due frasi potrebbero attagliarsi all’intento dell’autore, che ha avuto il coraggio di muoversi controcorrente rispetto alla produzione letteraria dominante, povera di significati e incurante di dettagli, i quali contribuiscono a determinare la qualità di un libro. Attingendo a una sorta di «mnemotecnica del cuore», che rivela potenzialità inattese, lo scrittore ha stilato un minuzioso archivio di nostalgie. La rievocazione investe circa un ventennio (1979-2001) e prende le mosse da Firenze: segue da vicino il destino di Giovanni Alis, il protagonista che, fedele a se stesso, riesce a farsi largo in una società non di rado filistea. Ma non affronta il suo cammino da solo: in principio è consigliato dal nonno che, con gli occhi chiusi - essendo affetto da cecità - vede più in là della fitta folla degli uomini e sa trasmettergli la passione quasi sacra per la letteratura, la quale si unisce al grillo per il teatro. Ma anche gli amici, Michele Ferrini e Marchino Dalìa, tra i tanti, hanno il pregio di stornare le sue malincionie, condividendo con lui la mania per il calcio, capace di renderlo quasi felice. Ma la vita, si sa, brulica anche di figure negative, che vanno però osservate con bonario umorismo. Scorrono così come su un nastro curiosi individui: la Streisand, imbellettata segretaria che ha il difetto di parlare alle spalle degli altri, storpiando le parole e torcendo il senso delle frasi, con risultati a tratti esilaranti; Bernino, un tronfio boss dei centri Internet, che promette a Giovanni un lavoro ben retribuito, ma asfissiante, il che toglierebbe tempo (il bene più prezioso) alla coltura delle arti; Geo M., un becchino che cerca di vendere al ragazzo un posto privilegiato al cimitero per il nonno morto da poche ore (ironia della sorte, la smagrita carogna, grazie alla sua scaltrezza, diverrà il presidente di un’organizzazione di volontariato). Molte altre figure affiorano nel testo, recitando sul palco della vita, e si eclissano, emergendo poi d’un tratto, come i ricordi della memoria, senza che vi sia alla base un rigoroso disegno, uno schema tracciato col compasso a tavolino (come avviene in molti romanzi di grido, che i pennivendoli oggigiorno ammaniscono con foga). D’altronde così accade nella vita quotidiana, dove i destini delle persone s’intrecciano come grani di polvere in un fascio di luce.
Un’opera elenco, dunque, inclusiva, magmatica, che insegue un pensiero dietro l’altro, e riunisce i frammenti sparsi d’una vita, tracciando una sorta di ritratto dell’artista da giovane. In questo fluire, che pare non arrestarsi mai (generando attimi di malinconia) si stampano nella mente del lettore nitide scene. Ne evochiamo alcune, come se apparissero su un Aleph cangiante. Il ricordo dei primi giorni di vacanza nelle Marche: le partite di calcio vicino al cimitero con gli amici. Il piccolo supermercato in faccia all’Adriatico, dove lavora la giovane Alice Fiorani, oggetto d’amor platonico di Giovanni. Le infantili burle tessute assieme a Michele Ferrini. Il pilota Raul Brighenti alla guida della sua Fiat 500, attraverso Colfiorito («una coccinella con le ali», p. 29). I piedi di fanciulle contemplati nella Costa Brava, con precisione radiografica, durante le vacanze in Spagna con Marchino. il formidabile sinistro di Maradona, mentre s’allena a Coverciano. Il Café del Arco a Murcia, dove fa la sua comparsa l’istrione, che tornerà poi in un momento decisivo della storia. I diciott’anni della sorella Lia (momento che richiama a sé altre memorie: «Rivide nitido il giorno in cui sbocciarono i primi giaggioli sui ciglioni e i pidocchi sul capino della Lia», p. 102): forse uno dei capitoli più accorati. Il viaggio in Amazzonia, dove le stelle sono così vivide che viene quasi voglia di toccarle (e ci sovviene una nota del Diario di Fenoglio: «Le notti di Agosto, a Monteberico le stelle ti scoppiano sulla testa», in Opere). Gli edifici di Manaus, simili a torte colorate. Il matrimonio di Marchino, divenuto infine avvocato. Le temibili sassaiole di Ettilio Pettenati (vera e propria novellina ricca d’azione, inserita all’interno del flusso rievocativo). Il cenone degli ex obiettori di coscienza allo stadio, dove riappare la losca figura di Geo. Il ritorno nelle Marche dopo vent’anni, alla vana ricerca di Alice. Il belvedere dal quale si domina Barcellona... e mille altri microeventi.
I quadri dipinti dall’agile penna dello scrittore denotano un garbato equilibrio: specchi della vita, che è un contrappunto di gioia e dolore, di deprecabili vicissitudini e bei momenti.
Il libro oscilla tra ricordanza e intreccio: a un certo punto del cammino il tenace miraggio di Alice, sempre riposta nel cuore, catalizza l’innata vena picaresca di Giovanni, dai piedi instancabili, e lo spinge a tornare nei luoghi della memoria, a cercare l’amore ideale dell’infanzia. La Spagna, l’approdo finale, cela un’inattesa sorpresa; e il libro assume quasi un tono favolistico, gettando via i dolorosi fardelli. Qui la narrazione si conclude. Sembra che l’autore abbia voluto tirare le somme d’un tempo ormai evaporato, ma che in parte è risorto, ed è stato racchiuso in queste pagine, folte d’immagini concrete e di luoghi empiricamente contemplati. Il volume diviene così cifra d’una realtà multiforme, prisma di cristallo in grado di assorbire le sensazioni più minute, le forme d’oggetti alonati d’animismo, le voci variegate (talora macchiate di dialettalità): segnali del mondo-della-vità, che si manifestano agli occhi attenti (mirini di precisione), pronti ad archiavarli e, forse, a interpretarli.
L’opera è percorsa da un forte impulso retrospettivo, come un salmone che risalga alle sorgenti. Giovanni, stanco di battagliare con le ansie dell’avvenire, volge spesso lo sguardo alle sue spalle, dove si accampa il tempo che fu, unica consolazione: ed evade sempre con la mente altrove. Beppe Fenoglio, nel suo Diario, si chiedeva: «Ma un libro su Alba, è meglio scriverlo in Alba o lontano da Alba?». Luti non esiterebbe a rispondere: lontano. Giovanni, che solo in parte gli somiglia, ci appare quasi sempre distratto; il suo cuore è come uno strumento non accordato; nel mentre il mondo esterno evolve rapinoso: uno spreco di meri eventi. L’Alis rimugina, acchiappa col retino i pensieri-tarme riposti nell’armadio del cuore, tra le sfere di naftalina: e d’un tratto toppe di esistenza s’illuminano davanti a lui, caricandosi di pienezza. Ecco perchè questa prosa è così lirica. Croce scriveva: «si è poeti per l’impulso irrefrenabile di certe immagini di vita, che, se negli uomini comuni passano fuggevoli senza traccia e appena osservate, nei poeti persistono, si richiamano, si aggruppano e formano organismi fantastici».
Per capire i detriti del tempo occorre uno stile individuale: qui c’è, ed è agile e scorrevole, prensile e sperimentale, ricco di forestierismi e giochi di parole, mosso da arguzie e invenzioni. A ciò si aggiunge attraverso un intenso lavorio artigianale, calibrato in ogni punto. E siamo convinti che l’autore, mosso da altri fantasmi interiori, è già pronto a impugnare la sua penna di castoro, per tracciare altri arabeschi, per narrarci nuove storie.
Data recensione: 01/04/2006
Testata Giornalistica: Nuova Antologia
Autore: Primo De Vecchis