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Una mostra sorprendente, per la quantità di opere che il curatore Stefano Sbarbaro ha saputo reperire, fa rivivere a Firenze il prodigioso talento (ingiustamente deriso e dimenticato) dell’armeno Gregorio Sciltian.

Una mostra sorprendente, per la quantità di opere che il curatore Stefano Sbarbaro ha saputo reperire, fa rivivere a Firenze il prodigioso talento (ingiustamente deriso e dimenticato) dell’armeno Gregorio Sciltian. Gli amici lo chiamavano “Griscia” e di amici ne ha avuti molti ma forse non quanti i nemici. Impegnato in una vita avventurosa, tra gli ultimi splendori della Russia zarista e della Germania di Weimar, tra la Parigi delle avanguardie e la sua terra promessa, l’Italia dove ha vissuto tra Roma, Milano e Venezia, Griscia mise in campo una pittura che rendeva la realtà rappresentata più reale di quella vera e lo fece per combattere la deriva di una modernità che, secondo lui, stava distruggendo la tradizione della mimesis durata secoli. Per questo, ammiccando ai tradizionali aneddoti sulla capacità illusionistica dell’arte, si faceva fotografare mentre, ingannato lui stesso, cercava di estrarre da un suo quadro un oggetto da lui stesso dipinto.
Suddiviso in dodici sezioni tematiche che cercano di spiegare i segreti della sua poetica e i  contesti in cui si è svolta la sua singolare avventura, il percorso espositivo ci presenta ben centoundici opere, tra i suoi dipinti, quelli di altri che condivisero le sue convinzioni (Pietro Annigoni, Xavier e Antonio Bueno, Carlo Guarienti e Alfredo Serri) e i quadri del secolo prediletto il Seicento che lui collezionava, finiti insieme a un cospicuo numero di suoi stessi dipinti al Vittoriale degli italiani a Gardone.
Insuperabile, sino a risultare inquietante, nella pratica del trompe-l’oeil, Sciltian ci ha lasciato una serie di nature morte, da quelle più decantate e ispirate alla tradizione degli anni Venti e Trenta a quelle dei decenni successivi, spesso caratterizzate da una vertiginosa accumulazione di oggetti. Ma è stato anche un fantastico ritrattista che, dall’editore demiurgo Giovanni Scheiwiller al tenebroso duca Luigi Visconti di Modrone, dal mago delle scene di Eduardo de Filippo (e il fratello Peppino) all’onnipotente banchiere Giordano dell’Amore, alla serie di donne lusingate nella loro bellezza e nella loro vocazione mondana, ci ha lasciato un’immagine inimitabile dell’Italia dal tramonto dell’era fascista fino agli ultimi bagliori del boom. Ma dove la sua straordinaria capacità di narratore- confermata anche da una estrosa autobiografia intitolata la Mia avventura edita nel 1963 da Rizzoli- lo rende davvero unico sono le grandi composizioni di figure, tra Il Bacco in osteria del 1935-1936, realizzato per Galeazzo Ciano, e L’eterna illusione del 1967-1968, dove come in una sacra rappresentazione, pervasa da riferimenti caravaggeschi, una serie di personaggi di ogni età e estrazione sociale si affolla davanti alla cassa di un cinematografo.
Di fronte all’ostilità o all’indifferenza della critica nei confronti di un artista che sembrava escluso dalla modernità ma che finì per avere un grande successo collezionistico, Sciltian conobbe il suo riscatto grazie all’apprezzamento di Roberto Longhi, che presentò nel 1925 la sua prima mostra personale alla casa d’arte di Bragaglia di Roma, e soprattutto del potente Ugo Ojetti che lo consacrò nel 1942 sulle pagine del “Corriere della Sera” in occasione della sala personale dedicatagli dalla Biennale di Venezia.
Data recensione: 02/08/2015
Testata Giornalistica: Il Sole 24 Ore
Autore: Fernando Mazzocca