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«Una caricatura». «Uno spartitraffico della doppia corsia ». Vasco Pratolini spese parole feroci nei confronti del monumento di Garibaldi sul lungarno Vespucci. E, presumibilmente

«Una caricatura». «Uno spartitraffico della doppia corsia ». Vasco Pratolini spese parole feroci nei confronti del monumento di Garibaldi sul lungarno Vespucci. E, presumibilmente, questa sua idea poteva essere estesa a tutte le statue celebrative che popolano le piazze fiorentine: ultimi baluardi una retorica fuori moda e fuori norma. Un giudizio comune a molti intellettuali, che ha pesato a lungo sulle effigi in pietra di eroi della patria o della cultura italiana, e che ancora oggi lega come un cappio al collo tanti simulacri di pietra. Lo sa bene Claudio Paolini, storico dell’arte, direttore dei “Quaderni del servizio educativo” della Soprintendenza di Belle Arti pubblicati da Polistampa, che escono con un numero dedicato proprio ai Monumenti celebrativi nella Firenze postunitaria. Obiettivo, spiega il curatore, «rileggere queste opere alla luce della qualità artistica. Trentanove, Bortone, Calzolari, la maggior parte di coloro che le firmarono furono artisti legati alla tradizione accademica. D’altra parte a questi monumenti si chiedeva di essere esemplari nel restituire la reale effigie dell’uomo se era un contemporaneo, e lo spirito dell’immagine storica se si se un personaggio antico. Un concetto in piena contraddizione con le strade imboccate dalla critica nel Novecento, quando è stata l’avanguardia a fare da timone ». Così, ci si è dimenticati di artisti come Emilio Zocchi «che, per la critica militante, ha rappresentato valori borghesi chiusi nei confini del suo tempo. Dagli anni Cinquanta agli anni Settanta del Novecento pareva che, nel secolo precedente, in Toscana fossero esistiti solo i Macchiaioli, come riflesso degli impressionisti francesi. Ma nel momento in cui alla Galleria d’arte moderna, la casa fiorentina di Fattori e gli altri, sono arrivati studiosi come Sisi e Spalletti che hanno finalmente ridato valore e significato all’arte accademica, è giusto che ci sia un’apertura anche nei confronti dei monumenti celebrativi. Questa rinnovata attenzione potrà essere una strada per evitare atti di vandalismo».
L’Obelisco dei caduti delle guerre d’Indipendenza di Giovanni Pini (in piazza dell’Unità), il monumento al Savonarola nell’omonima piazza (Enrico Pazzi), quello a Michelangelo al piazzale (di Clemente Papi e Luigi Stiattesi) sono anche una componente fondamentale del costume: «Dietro queste statue c’erano comitati che, dopo l’Unificazione, poterono se- guire due strade: da una parte la glorificazione di eroi del Risor- gimento, dall’altra il tributo ai grandi fiorentini e toscani del passato, riconosciuti quali fon- datori della cultura nazionale: da Dante a Savonarola. E poi c’erano i concorsi per determinare gli artisti, la scelta dell’ubicazione con polemiche sui giornali, le affollatissime inaugurazioni in pompa magna. C’era insomma l’adesione forte da parte della società tutta ». Nel volume, Paolini scheda 18 esemplari. Uno è il monumento a Vittorio Emanuele II, dello Zocchi, trasferito in piazza Vittorio Veneto e che Nardella vuol far ritornare in piazza della Repubblica. «Approvo — conclude Paolini — Perché la piazza nel cuore della città fu ideata per ospitare questo monumento: la prospettiva voleva che fosse il grande arco, e non certo la tramvia, a inquadrare l’eroe».
Data recensione: 05/08/2015
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Fulvio Paloscia