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ANGOSCIA per l’arte e i libri, ma soprattutto per le persone.
L’alluvione nelle lettere di due maestri della letteratura, l’uno poeta e critico letterario, Carlo Betocchi (1899-1986),

Il carteggio fra Betocchi e PizzutoANGOSCIA per l’arte e i libri, ma soprattutto per le persone.
L’alluvione nelle lettere di due maestri della letteratura, l’uno poeta e critico letterario, Carlo Betocchi (1899-1986), torinese di nascita e fiorentino d’adozione, l’altro, Antonio Pizzuto (1893-1976), siciliano, ex vicepresidente dell’Interpol e questore d’Arezzo, in pensione a Roma, poliziotto e sperimentatore d’oreficeria letteraria. Il loro epistolario, edito da Polistampa nella collana Il diaspro, con il titolo di «Lettere (1966-1971)» , curato da Teresa Spignoli e con un efficace profilo critico di Antonio Pane, restituisce alcune osservazioni e suggestioni delle giornate dell’Arno che, nella notte fra il 3 e il 4 novembre del 1966, invade la città. Preoccupato, Antonio Pizzuto, chiede a Betocchi notizie sui suoi amici che sono a Firenze. Betocchi lo rassicura con un messaggio recapitato dalla Rai romana e Pizzuto scriverà all’editore Vanni Scheiwiller che «gli amici nostri di Firenze (il filologo e critico Gianfranco Contini, il professor Giovanni Nencioni, Rosanna Bettarini assistente di Contini, ndr) sono tutti in salvo, grazie a Dio!» (10 novembre 1966). Nella stessa giornata ringraziandolo per il suo «consolante messaggio», riconosce a Betocchi di averlo tolto da ansia infinita, mentre «rimane l’angoscia per Firenze, i suoi tesori, i suoi libri! e il dolore delle vostre sofferenze». Betocchi gli risponde il 14 novembre, confermandogli le buone notizie sugli amici: «Se è vero che siamo nei guai, è altrettanto vero che abbiamo una gran voglia di uscirne, lo spirito fatto per questo, e che perciò il modo miglior per ritrovar tutti la salute è quello di occuparci ciascuno con tutto il cuore delle cose proprie. La vita dello spirito deve in ogni modo sopravanzare i danni della natura che si scatena e diventa odiosa come lo sono tutte le violenze: parlo delle informi violenze senza legge e senza un punto fisso al quale guardare». Betocchi, che abitava in Borgo Pinti, scrive in quei giorni una poesia, «Nei giorni della piena», che sarà recitata, assieme a «E dopo, 25 novembre, alla prim’alba serena», da Giorgio Albertazzi in occasione della ripresa della stagione teatrale fiorentina nel Piccolo teatro il 20 dicembre ’66. Eccola: «Quando vidi avventarsi,/ in capo a Borgo Pinti, piegando in giù/ con le sue froghe schiumanti l’empia/ cavalla della piena, il collo immane/ gonfie di sozze vene, gialle d’ira,/ unte di morchia, scotendo la criniera/ sotto le finestre, precipitando nelle case/ con mille galoppi, tanti ne partoriva/ quanti abituri c’erano, templi e palazzi».
Ritroveremo entrambe le liriche nella raccolta «Un passo, un altro passo». Il 16 novembre Betocchi avvisa l’amico di spedirgli la posta in Rai, piuttosto che in Borgo Pinti: «La posta funziona regolarmente ma se ritarderai a spedirmelo (un libro, ndr) sarà anche meglio perchè in casa mia le cassette della posta sono state asportate dall’acqua e la posta viene affidata un po’ casualmente anche a un inquilino per l’altro».
Tra i due seguono altre tre lettere e quindi, il due dicembre, torna un ultimo riferimento all’alluvione e alla situazione di Giovanni Nencioni, professore di Storia della grammatica e della lingua italiana dell’Università di Firenze (dal 1952 al 1974), poi presso la Scuola Normale superiore di Pisa (fino al 1981). «Stamani incontro un collega universitario di Nencioni, il quale mi ha detto che è vero che lui e la sua famiglia stanno bene; ma, a parte il fatto che se non la sua abitazione tuttavia la casa che è di sua proprietà ebbe danni dall’alluvione, c’è anche di peggio. Cioè il suo cognato Barocchi, gioielliere del Ponte Vecchio, avute sfondate le botteghe dalla piena, avrebbe avuto un danno di più di cento milioni. Cosa grave per la famiglia, dunque, tantochè il Nencioni ha chiesto un congedo di sei mesi dagli istituti dei quali è a capo o a parte. Del resto qui stasera l’Arno è di nuovo gonfio e piove in tal modo che c’è diffuso il senso di un altro grosso pericolo. Speriamo di no».
Le lettere tra Pizzuto e Betocchi, in particolare, restituiscono anche un giudizio poco tenero di Betocchi sulla critica letteraria. É il gennaio del ’67, i due discettano della scarsa fama attribuita a Pizzuto. Colpa, secondo Betocchi, dei critici di cartello che «debbono tirare via. Con te non possono tirare via e stanno zitti». Betocchi approfondisce il tema, toccando le fortune di Ungaretti e Montale: «Né si può pretendere di fare del nuovo ed essere ampiamente discussi. Sono fortune che capitano una volta sola e che incidentalmente capitarono - con un decorso di venti anni lentamente sviluppatosi - a Ungaretti e Montale. E c’erano ragioni che ripensarci e dirle oggi sembrano paradossali. Ma loro stessi nel clima di oggi sarebbero stati - con tutti i loro meriti - molto più probabilmente trascurati.»
Data recensione: 26/11/2006
Testata Giornalistica: La Nazione
Autore: Michele Brancale