chiudi

Di solito acquisto libri incuriosito dal titolo, dalle descrizioni di quarta di copertina, o perché l’autore noto offre garanzie. In questo caso

I giorni dell’esodo
di Franco Manescalchi
Edizioni Polistampa 2014 Di solito acquisto libri incuriosito dal titolo, dalle descrizioni di quarta di copertina, o perché l’autore noto offre garanzie. In questo caso ho acquistato questo libro di Franco Manescalchi per tutti i motivi sopra citati, ma soprattutto perché conosco personalmente Franco in quanto egli può essere definito il poeta punto di riferimento della cultura fiorentina attuale e sicuramente anche italiana. Incuriosito dal fatto di scoprire come egli se la cavasse con la prosa ho letto il libro di centonove pagine dal 24 al 27 giugno. Premetto che non sono un critico letterario ma solamente un lettore, appassionato sì, ma semplicemente lettore, ho avuto delle impressioni particolarmente significative. Consiglio la lettura a tutti coloro che sentono ancora profondo il richiamo della campagna, di quella civiltà contadina in cui, senza tema di smentita la stragrande maggioranza degli italiani si riconosce. Io di sicuro. L’autore fa parlare tre personaggi della stessa famiglia: il padre Guido, la madre Bruna e lui stesso. Ciascuno di essi è portatore delle proprie esperienze vissute nel contado di Firenze tra inizio novecento fino agli anni cinquanta. A dire il vero, essi richiamano anche fatti e personaggi legati a quei luoghi, accaduti e vissuti, anche negli ultimi decenni dell’ottocento. I racconti, infatti, si imperniano sulla storia della famiglia contadina allargata ai parenti, amici, vicini, fittavoli, mezzadri, padroni, nobili, fascisti, nazisti, americani ecc. il tutto senza soluzione di continuità, come è naturale, nel procedere della storia secondo il principio di causa ed effetto. Non sto a descrivere anche in sintesi le vicende, lo fa l’autore magistralmente, vengo solamente a commentare ed evidenziare le sensazioni che il libro mi ha trasmesso. Non si può non sentire come propri, per chi fa parte delle mie generazioni, questi racconti che sono un insieme di prosa e poesia, o meglio, prosa poetica, come si cita nella quarta di copertina. C’è un forte senso georgico e anche bucolico infuso in tutte le righe. I traslochi da podere a podere, di cascina in cascina,vengono vissute con la stessa intensità del virgiliano Melibeo, ma anche con tanto Pascoli che trasuda dopo ogni punto, dentro ogni riga. La malinconia profonda nel lasciare amicizie, animali, paesaggi, profumi, è sempre la stessa nel corso dei millenni, per chi con la terra stabilisce un legame profondissimo, come di radice di quelle piante, come di semente tra quelle zolle. Ma anche l’allegria e la speranza di chi aveva nulla o poco. La spensieratezza, le passeggiate, le corse, i sacrifici (quelli dei mietitori che a cinquant’anni erano tutti gobbi, o delle madri che portavano i bimbi in collo per quelle vie sterrate anche per dieci chilometri). Poi le veglie in cascina, i teatranti di strada, i militari di passaggio, e Firenze, sempre lì a due passi, ad esercitare il suo fascino, il suo richiamo, ineludibile, pericoloso, vincente richiamo. Le terre  descritte sono quelle della zona di Settignano, terre di pianura, di ordine geografico e colturale. Anche le terre di collina (Compiobbi, Romena) arricchiscono la scena. Non sono solamente luoghi della geografia rurale fiorentina, ma sono possessori di un’anima anch’essi. Vivono come vivono quei contadini. Tra essi c’è un vincolo profondo, simbiotico e imprescindibile. Solo un poeta come Franco poteva, riga dopo riga, enumerando nomi di arnesi, di piante, di alberi e di animali, elevare le storie riportate, con la leggerezza sublime dell’amore profondo per quel mondo scomparso sotto la torre della Fiat. Leggendo quei capitoli, pian piano è come se si sentisse il sottofondo del vento che porta musiche pucciniane e se dovessi dare una rappresentazione pittorica alle descrizioni, sicuramente opterei  per le opere di Giovanni Segantini, Gaetano Bellei e soprattutto del fiorentino Carlo Facchinetti (1970-1935) in una sorta di visione artistica comparata. Superfluo dire che si tratta di un bel libro. Una saga familiare che ha fondamento su personaggi antieroi, su gente dignitosa,laboriosa, eticamente esemplare. In questo libro ho ritrovato molto del mondo della mia infanzia, dei miei vecchi, delle abitudini dei contadini del centro Italia; tra i tanti ricordi che mi sono riemersi, uno in particolare: come a Firenze la pietra per arrotare la falce veniva inserita nel corno vuoto di bue e appesa alla cintura dei mietitori, così anche in Umbria, nelle mie campagne, negli anni cinquanta. Tutto sommato, Firenze, non è poi così lontana.
Data recensione: 28/06/2014
Testata Giornalistica: Cultura Commestibile
Autore: Evaristo Seghetta Andreoli