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Nel tempo del suo soggiorno in Sud Africa, tra il luglio del 1935 e il settembre del 1936, il pittore Giovanni Colacicchi

Nel tempo del suo soggiorno in Sud Africa, tra il luglio del 1935 e il settembre del 1936, il pittore Giovanni Colacicchi, in cerca di soggetti, raggiungeva zone talmente deserte, da finire per provare una totale solitudine e temere l’assalto improvviso di qualcuno o di una belva. Smetteva allora di dipingere e cercava riparo dietro il cavalletto. Solo a quadro finito, vi scopriva, come egli stesso raccontò a un amico poeta, «quella serenità che è propria dei momenti di maggior panico». La quiete dopo l’uragano, un dolce abbandono al termine di tante tempeste emotive, un’umanità sospesa tra la terra arida e il cielo gravido di mistero: tutto questo anche oggi si prova con viva emozione davanti alle opere – un’ottantina – esposte fino al 19 ottobre nelle sale di Villa Bardini a Firenze nella mostra “Giovanni Colacicchi. Figure di ritmo e di luce nella Firenze del ‘900”, curata da Mario Ruffini e Susanna Ragionieri per conto del Comune di Firenze, della Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron, e del Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max Planck Institut. I dipinti del periodo africano costituiscono una delle vette espressive della mostra. Le nature morte, con uova di struzzo accostate a conchiglie oceaniche, a gusci di granchio o a fiori asciugati dal sala e dal vento, offrono – come annotò Eugenio Montale nel 1938 – «intonati colloqui di forme» in una pittura dal «respiro calmo e profondo». I paesaggi offrono invece uno stupefacente e cinematografico “effetto notte”: sono opere talmente piene di sole, da risultare – scrive Montale – «oscurate talora dalla troppa intensa luce». Pochi dipinti nel Novecento danno una pari, vivida percezione del mistero dell’esistenza. La luce è elemento decisivo dell’arte di Colacicchi sia che dia corpo. con straordinarie scale di grigi e di bruni, alla “Melancolia”, capolavoro giovanile del 1924, sia che irrompa trent’anni dopo sulla «Terrazza» di una casa di Forìo in un trionfo di bianchi. Altro elemento costitutivo è la musica. Nel catalogo edito da Polistampa – ottimo strumento di ricerca e di studio – il curatore Mario Ruffini sottolinea la musicalità profonda di Colacicchi, l’amore per le matematiche proporzioni e l’armonia che scandiscono il ritmo delle figure. Non a caso il pittore ha lasciato – in una serie eccelsa di ritratti – splendide testimonianze della sua amicizia con musicisti come Mario Castelnuovo Tedesco e Luigi Dallapiccola. Senza contare il dinamismo della danza, che con tanta vitalità emerge dal gioco di corpi e di ombre della famosa “Allegoria per un cinematografo”. Insomma, un vero maestro. E anche un maestro ritrovato, al quale la mostra di Villa Bardini dà, a ventidue anni dalla morte, il rilievo che merita. Se è vero che a Colacicchi non sono mai mancati successo, onori e plauso da critici importanti, è pure vero che il dilagare dell’arte informale, l’alluvione “concettuale” e mode superficiali hanno steso un velo di colpevole disattenzione nei confronti di lui e di una parte rilevante dell’arte italiana del Novecento, oltretutto quella più ricca di poesia, di significati e di valori. È bello, finalmente, ricominciare a “vedere”.
Data recensione: 12/05/2014
Testata Giornalistica: La Nazione
Autore: Enrico Gatta