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«Il fascismo è stile di vita: è la vita stessa degli Italiani. Nessuna formula riuscirà mai a esprimerlo compiutamente e tanto meno a contenerlo

«Il fascismo è stile di vita: è la vita stessa degli Italiani. Nessuna formula riuscirà mai a esprimerlo compiutamente e tanto meno a contenerlo. Del pari, nessuna formula riuscirà mai ad esprimere e tanto meno a contenere ciò che si intende qui per Arte Fascista, cioè a dire un’arte che è l’espressione plastica dello spirito Fascista. L’Arte Fascista si verrà delineando a poco a poco, e come risultato della lunga fatica dei migliori. Quello che fin d’ora si può e si deve fare è sgomberare il problema che si pone agli artisti dai molti equivoci che sussistono. Nello Stato Fascista l’arte viene ad avere una funzione educatrice. Essa deve produrre l’etica del nostro tempo. Deve dare unità di stile e grandezza di linee al vivere comune. L’arte così tornerà ad essere quello che fu nei suoi periodi più alti e in seno alle più alte civiltà: un perfetto strumento di governo spirituale. La concezione individuale della “arte per l’arte” è superata. Deriva di qui una profonda incompatibilità tra i fini che l’Arte Fascista si propone e tutte quelle forme d’arte che nascono dall’arbitrio, dalla singolarizzazione, dall’estetica particolare di un gruppo, di un cenacolo, di un’accademia. La grande inquietudine che turba tuttora l’arte europea è il prodotto di epoche spirituali in decomposizione. La pittura moderna, dopo anni e anni di esercitazioni tecnicistiche e di minuziose introspezioni di fenomeni naturalistici di origine nordica, sente oggi il bisogno di una sintesi spirituale superiore.»
Così Mario Sironi nel «Manifesto della pittura murale», firmato anche da Massimo Campigli, Carlo Carrà e Achille Funi, e pubblicato su La Colonna nel dicembre del 1933. Si tratta, indubbiamente, di una dichiarazione di fede che, proprio perché tale, comporta una piena assunzione di responsabilità. Di fronte alla storia, di fronte alla cultura, di fronte a se stessi. Ebbene, Mario Sironi le sue «responsabilità» se le prese tutte. Da fascista. Non come tanti intellettuali che «credettero, obbedirono e combatterono» finché il sole continuò a brillare «sui colli fatali di Roma », e poi, nei «notturni» del 25 luglio e dell’8 settembre, scelsero, per para frasare Mirella Serri, di vivere «un’altra volta», come antifascisti (I redenti. Gli intellettuali che vissero due volte, Corbaccio, 2005).
No, Sironi andò avanti. Fu fascista nel dramma, nella tragedia, nella passione/ disperazione buia e feroce di Salò, in quelle notti e in quelle nebbie lungo-lago. Dopodiché ci fu la «damnatio memoriae». Ma quanto poteva durare? Perché la grandezza è grandezza, non ce la fai a oscurarla o a sbriciolarla, torna prepotentemente a proporsi e ad imporsi, ti chiede ragione di processi sommari e di congiure del silenzio, e fascinosa e turbinosa riesplode. Così è stato, «è» per Sironi. Chi si azzarderebbe, oggi, a negargli un posto di primo piano nella cultura italiana del Novecento? Nessuno: neppure tra i più sinistri sinistrati dell’ideologia, quelli che, a furia di inquisire, processare ed epurare, hanno largamente perduto «il ben dell’intelletto». Ma l’originalità e la potenza espressiva del pittore sassarese hanno tale evidenza che un po’ di obbiettività e di attenzione critica bastano ed avanzano per un segno di riconoscimento. Anzi, per attestati di ammirazione in crescendo.
Come è avvenuto, nel 2006, in occasione della mostra nel Chiostro di Sant’Agostino a Pietrasanta (Lucca) («Mario Sironi. Il linguaggio allegorico ») e nel 2010 di fronte ai quaranta disegni della Estorick Collection of Modern Italian Art di Londra, in esposizione a Peccioli (Pisa) («Mario Sironi tra futurismo e metafisica»). Come avviene oggi con le cinquanta opere su carta con cui la Galleria «Laocoonte» di Roma (Via Monterone, 13/13A) inaugura la sua attività espositiva («Mario Sironi/Disegni e tempere dal Futurismo al dopoguerra», fino al 7 luglio. Catalogo Polistampa, testi a cura di Fabio Benzi, con un servizio fotografico di Sanford H. Roth, pp. 147, euro 28).
Nel suo saggio introduttivo, Benzi ricorda come il Laocoonte, che fa «da nume tutelare all’impresa», è «da una parte un personaggio tragico, che vede la verità dove altri non la riconoscono » e, al tempo stesso, «è una celeberrima statua dell’antichità, di mirabile enfasi espressionista, e un trattato di estetica che Lessing scrive, in contrasto con Winckelmann, nel quale si insinua l’idea che il ‘bello’ sia inscindibile in arte dal ‘brutto’».
La scelta di Sironi è in sintonia con l’immagine mitica e vale da emblema e da contrassegno, perché in lui«si fondono inscindibilmente classicità apollinea e drammaticità ‘anticlassica’, persino caricaturale, pensiero illuminista e irrazionalismo romantico, bellezza platonica e forzatura espressionista». E, insieme alle «opere» - la Galleria romana presenta illustrazioni, disegni, bozzetti, cartoni preparatori, progetti architettonici e scenografici, che ben evidenziano come sulla carta«Sironi esprimesse più che mai la sua ansia di creatività» - ci sono i «giorni», a caratterizzarne quel profilo arduo, nobile, libero che emerge dalla «ricognizione» di Benzi. Dove l’uomo e l’artista si fondono in un’immagine coerentemente propositiva, anche nelle appassionate e dolorose contraddizioni. Ma non è tratto caratteristico del Novecento che più amiamo quello che vede un costante, turbinoso confliggere di emozioni, vòlto, però, alla sintesi?
L’itinerario di Sironi procede dalla eredità del divisionismo alle ebbrezze avanguardistiche del futurismo al ritorno ai valori individuali e sociali, considerato come un’insopprimibile esigenza. Sin dall’inizio l’artista è attento alla forza plastica del passato, agli archetipi culturali e spirituali della classicità, alle tangibili memorie della Tradizione che la Modernità non distrugge ma ritrova in altra, più complessa, forma.
Così, se da questi disegni, intesi come cifre di una visione del mondo, ci proiettiamo in tutta l’opera sironiana, scopriamo che i paesaggi urbani, le città futuriste, le «solitudini» metropolitane, i fregi monumentali, i cavalli, i cavalieri, i ciclisti, le automobili, le corazzate, le centrali elettriche, i manichini, le donne, i nudi, i combattenti, i figli del popolo, gli alfieri della Grande Politica, i miti e i riti che si fanno corporeità presente e tangibile, le sontuose allegorie ecc., insomma i nuclei narrativi ed espressivi dell’artista, da una parte costituiscono una sorta di trama figurativa della Modernità/Rivoluzione, dall’altra esprimono il senso della Tradizione/ Restaurazione. La sintesi ha il volto e lo spirito di grande rinnovamento «epocale» solidamente ancorato nel passato. Il che significa ritrovarlo/ riattingerlo attraverso le «emozioni» più alte - dunque, «liriche», «epiche» e «monumentali» - dell’Uomo, dello Sta to, della Comunità. Nel nome della missione civile dell’Arte, come missione educativa e sintesi spirituale superiore.
Il Fascismo aveva questo obbiettivo? Di sicuro Sironi ci credette con tutte le sue forze, attivando un insonne laboratorio sperimentale che tutto contiene. Dunque anche i segni della amarezza del «vinto». Quelli che - li evocava la mostra pecciolese di quattro anni fa - Eric e Salome Estorick colsero quando si recarono a fargli visita nel 1948, durante il loro viaggio di nozze. Lui americano, lei di famiglia russa sfuggita alla rivoluzione, entrambi di origine ebraica, entrambi alto-borghesi, colti e liberal, erano innamorati dell’arte e in particolare di quella italiana tra le due guerre. Ed Eric, sociologo, voleva «ricostruire la parabola artistica del maestro italiano attraverso i suoi disegni e i suoi scritti». È da questa «attenzione» che nascono la collezione Estorick e un rapporto di stima profonda. Tanto è vero che Eric curò l’allestimento di una personale del Maestro presso la St. George’s Gallery di Londra. Una rivalsa per Sironi così isolato nel suo cupo pessimismo (in quello stesso 1948 muore suicida la giovanissima figlia Rossana, sconvolta dalla separazione dei genitori)? Di sicuro, la vita era diventata «agra» da quando, nell’aprile del 1945, l’artista era stato fermato da una brigata partigiana e, in quanto repubblichino, se l’era vista davvero brutta. Gli aveva salvato la vita Gianni Rodari che di quel gruppo faceva parte e che difese l’Uomo e l’Artista. Ma l’angoscia per la «morte della Patria» e per il proprio destino personale era tanta. «Si è tutto rotto in questi mesi, tutto», scriveva. «Non sono rimaste che macerie e paura.»
E lui ne era sconvolto come uomo, come italiano e come pittore di grande coerenza stilistica. Il «suo» Novecento - quello che emerge anche in questa suggestiva raccolta di disegni - ce ne dà testimonianza. Abbiamo di fronte un artista che si confronta con il proprio tempo e vuole essere civilmente presente e operante. Il che comporta un impegno a «svolgere» l’attualità, recuperando ciò che è lontano e profondo. Ovvero la sostanza etica ed epica della Tradizione. Vocazione celebrativa? Riesumazione e ricostruzione? Sì, ma basata su una convinzione salda. Sironi avverte come «dovere» quello di essere un artista «politico». Meglio, che opera nel segno e nel senso della Grande Politica. I tratti caratteristici? Educazione alla Comunità e allo Stato. Come? Nel lavoro incessante, nel fecondo operare, nell’energia intellettuale e vitale che fanno riemergere archetipi, miti e riti, non in senso retorico e museale, però, ma dando ad essi una direzione nuova. L’hanno cercata, per vent’anni, i battaglieri ragazzi delle riviste fiorentine e delle avanguardie artistiche (Anni incendiari. 1909- 1919: il decennio che sconvolse l’arte e il pensiero, la storia e la vita, a cura di Marcello Veneziani, Vallecchi). E il Fascismo l’ha trovata.
Sironi «pittore di Regime»? Certo che lo è. Ma qui bisogna subito intendersi per non soccombere alla guerra delle parole che ambirebbero ad esser concetti e magari sentenze di condanna. Sironi crede nel Fascismo e in Mussolini perché il Fascismo e Mussolini traducono in forme e norme la sua visione del mondo. Un’immagine forte, carica di echi e risonanze, una specie di nostalgia primordiale proiettata nel futuro. Immerso nel suo operoso fervore, Sironi guarda a tutto ciò che nel presente ha il sapore di rifondazione mitica. Ma è anche meravigliosamente «concreto»: i palazzi, i ponti, i viadotti, le paludi bonificate, le nuove città sono materia e forma del Regime. Un’illusoria «età dell’oro» che sprofonderà nella tragedia? Facile dirlo col senno di poi. Ma negli anni del consenso, quell’«oro» sembra la quotidianità.
Sironi partecipa all’entusiasmo collettivo e in qualche modo ricrea quel che vede creare all’intorno, nello slancio di valori condivisi: insomma, lo plasma e gli dà l’impronta del suo genio. Insomma, crede nel Fascismo. Intendiamoci: «crede» perché «vede». Che cosa? L’Italia che sta diventando - finalmente! - un Popolo e uno Stato. Facendo la sua Rivoluzione. Quella la cui bandiera è stata agitata per anni dagli «interventisti della cultura» sui giornali, nelle piazze, in trincea, di nuovo in piazza nei primi anni del dopoguerra. Sironi, col suo modo un po’ brusco di fare e di essere, è a questo mondo che appartiene.
Nato a Sassari nel 1885 da padre lombardo e madre toscana, nel 1915, insieme a Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant’Elia ha firmato il manifesto futurista «L’orgoglio italiano». Sempre in quell’anno si è arruolato nel Battaglione Lombardo Ciclisti e Automobilisti, per combattere accanto alle «teste calde» che vedono nella guerra la grande occasione rivoluzionaria: di nuovo, Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant’Elia, ed Erba e Funi. Nel frattempo ha collaborato come disegnatore alla rivista Gli Avvenimenti di Umberto Notari. E i suoi schizzi sulla guerra sono stati elogiati da Boccioni che ha scritto: «Ai piagnucolosi glorificatori di tutto ciò che viene dall’estero tendo a dichiarare qui che le illustrazioni del pittore Sironi superano per potenza plastica, per interesse drammatico e per spirito ironico, le più celebri e le più copiate illustrazioni di qualsiasi giornale o rivista europea o americana».
Boccioni morirà nel 1916 e non farà in tempo a vedere nemmeno l’alba dell’Italia nuova alla quale gli altri «interventisti della cultura» approderanno, per dir così, naturalmente.
Sironi ne vivrà, invece, tutte le stagioni, dalla «primavera di bellezza» al desolato, «autunnale» aprile lungolago. Poi, il dopoguerra. E una strana democrazia, con tutte quelle «cose» che non si possono fare né dire perché ti «marchiano». E se sei già «marchiato», e non vuoi essere «redento», peggio per te. Ma lui la «logica» dei «pentiti» non l’ha mai accettata. Ed anche questa è una bella lezione.
Data recensione: 01/01/2014
Testata Giornalistica: Il Borghese
Autore: Mario Bernardi Guardi