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«Messina lo tenga alla larga! O io o lui, si ricordi!» scriveva Arturo Martini nel 1938 al fornitore di marmi da cui andavano entrambi. È un aneddoto che può tornare in mente

A Firenze una grande retrospettiva ripercorre la carriera di uno dei protagonisti del ’900 italiano a lungo sottovalutato

«Messina lo tenga alla larga! O io o lui, si ricordi!» scriveva Arturo Martini nel 1938 al fornitore di marmi da cui andavano entrambi. È un aneddoto che può tornare in mente visitando la vasta mostra che Firenze dedica ora a Francesco Messina. E non per il gusto di ricordare rivalità e ripicche, che sono la regola nel «doloroso mondo dell’arte», come lo chiamava Persico. Certo, i due artisti si detestavano: nel 1934 Messina aveva soffiato a Martini la cattedra di scultura all’accademia di Brera, della quale sarebbe poi diventato direttore. E l’anno dopo Martini, allora nella giuria della Quadriennale di Roma, si era vendicato: si era adoperato con tutte le forze per non far assegnare a Messina il primo Premio di scultura che ammontava a centomila lire (una cifra leggendaria in un’Italia che sognava di guadagnare «mille lire al mese») ed era riuscito nell’intento. Eppure non sono questi contrasti che interessano. Il fatto è che quell’aut aut, quel “o io o lui”, testimonia della grandezza di Messina, che il grande Arturo Martini avvertiva e temeva. Non ci si irrita così con chi non ci fa ombra. Di quella grandezza, che gli è stata a lungo negata (uno dei maggiori manuali della scultura del Novecento liquidava Messina come un artista mediocre: bravo fin che si vuole nella tecnica, ma poco più che un artigiano), la mostra di Firenze, progettata e coordinata da Nicola Loi, offre una testimonianza viva, corposa, esauriente. Sono esposte centoventi sculture e quaranta opere su carta, divise in due sedi: le stanze e i giardini di Villa Bardini, non lontano da Boboli, e le sale dell’Officina Farmaceutica di S. Maria Novella, una suggestiva spezieria seicentesca che pochi conoscono, anche se è a due passi dalla stazione ferroviaria. Tutte le stagioni dell’artista sono documentate e, tra ambienti museali e angoli immersi nel verde, si rivedono molte sue opere celebri, dagli Amanti del 1928 in tipico stile novecentista al Giobbe inginocchiato e teatrale del 1934, dalla Quadriga grecizzante del 1941 al realismo espressionista del dopoguerra, fino agli ultimi lavori. Senza dimenticare i ritratti: quello di Montanelli, che ha la solennità di un faraone egizio; quello di Lucio Fontana, un po’ intellettuale italiano e un po’ gaucho argentino; quello sofferente di Tosi, sei anni prima della sua scomparsa; quello ascetico, prosciugato, controriformistico del cardinal Schuster, quello di Gianni Agnelli ed altri. Francesco Messina (Linguaglossa, Catania, 1900 - Milano 1995) è un realista. Non è un lirico come lo sono, in modi diversi, Arturo Martini e Marino Marini. E non è nemmeno un metafisico come Melotti. È, anzi, fisicissimo, e la sua arte ha a volte qualcosa di troppo carnale che può non piacere. Quando però il suo verismo moderno si mescola con un ve- rismo antico, greco, ellenistico, allora giunge a esiti superbi, insieme eloquenti e misteriosi. Pensiamo al Galletto (che non è il re del pollaio, ma il soprannome di un monello) oppure al Giovinetto nuotatore, scolpiti fra il 1934 e il 1935. Raffigurano due ragazzetti ingenuamente spavaldi, strappati ai giochi fra gli scogli o i vicoli e condotti chissà come in studio a posare. Quando le due opere erano state inviate con altre sculture dello stesso genere alla Quadriennale di Roma del 1935, De Scalzo, un poeta ligure, aveva scritto che non vedeva l’ora di ammirare nelle sale romane, colati nel bronzo, «Cataina, Giacan, Vitoja u Sirviu, il Galletto padre e figlio e tutta una folla di pescatori e gandulli della marina». Belle parole. Eppure quei gandulli non appartenevano solo alla Genova degli angiporti, ma si riallacciavano all’arte ellenistica, ed erano figli dei camalli come dei bronzi del III secolo avanti Cristo. Il realismo porta Messina anche a rivoluzionare le iconografie tradizionali. Lo scultore catanese è stato l’unico artista, per esempio, a immaginare un Adamo ed Eva seduti. Sembra un particolare di poca importanza, ma Adamo ed Eva sono sempre stati rappresentati in piedi, ai lati dell’Albero del Bene e del Male o scacciati dall’Eden. Adamo ed Eva del 1956 esposti a Firenze, invece, sono ritratti come una coppietta di innamorati su una panchina. L’insolita posa, però, rafforza la tensione dell’immagine, permettendoci di osservare da vicino i loro corpi stretti in una complicità angosciata, i loro volti sgomenti, con gli occhi atterriti e le bocche spalancate in un grido senza suono. Le opere di Messina, del resto, si incentrano soprattutto sul corpo e Gli amanti, i Pugilatori, le Bagnanti, le Ballerine sono lì a testimoniare tutto il suo amore per quel soggetto. È un amore che non l’ha mai abbandonato, come dimostra la giovane donna dell’Estate, 1989, rigogliosa come un frutto maturo. Scolpita con la passione di un ragazzo, sulla soglia dei novant’anni.
Data recensione: 10/06/2013
Testata Giornalistica: La Stampa
Autore: Elena Pontiggia