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Il Rapace in fuga di Giorgio Antonioli Ferranti (Edizioni Polistampa, 2012) si presenta come un gioiellino: un libro di piccolo formato (poco più che 17×12 cm. circa) dalla copertina rigida ma leggera

Il Rapace in fuga di Giorgio Antonioli Ferranti (Edizioni Polistampa, 2012) si presenta come un gioiellino: un libro di piccolo formato (poco più che 17×12 cm. circa) dalla copertina rigida ma leggera, che si stringe fra le mani come un breviario o un piccolo taccuino. In copertina è riprodotto il particolare del Battesimo di Cristo, dipinto eseguito a quattro mani da Verrocchio e Leonardo, niente di meno. Il lettore, libro in mano, è portato a cercare nella riproduzione di copertina il suddetto rapace e, una volta individuato, apre automaticamente il libro, in parte anche invitato dalla posizione del piccolo uccellino che fugge verso destra, come a suggerire al lettore di aprire la copertina; e inizia la lettura.
La ricerca del rapace continua attraverso le pagine del libro, ma non sembra farsi trovare nemmeno sfogliando l’indice, poiché nessun titolo dei tre capitoli del saggio da’ indizi a proposito del fuggente animale. La bella introduzione di Antonio Natali rassicura il lettore: ciò che si sta sfogliando è un saggio di iconologia che necessariamente prevede l’analisi elementi storici e culturali che inquadrino il dipinto, fermo restando però che la chiave di lettura della tavola verrocchiesca è proprio quel piccolo e fuggente volatile. L’analisi iconologica che Ferranti promette, e che svolgerà ampiamente nell’ultimo capitolo, prevede, come ho detto, delle premesse di tipo storico che nel libro vengono poste nei primi due capitoli. In primo luogo l’autore si interroga sullo strano silenzio che interessa il Battesimo di Cristo nel periodo che intercorre fra le notizie delle Vite del Vasari e il 1808, data in cui si fa menzione del dipinto. In secondo luogo Ferranti analizza la situazione culturale e “politica” dei Vallombrosani e della relativa chiesa di San Salvi, focalizzando l’attenzione su un personaggio chiave, Simone di Michele Cioni, abate di San Salvi e fratello di Andrea Verrocchio. Questo rapporto di parentela sancisce un sodalizio che non verrà meno negli anni (come attestano i documenti) e probabilmente, secondo la tesi dell’autore, influisce non poco sulla commissione del Battesimo proprio ad Andrea e bottega (leggasi Leonardo).
Se lo studio delle vicende vallombrosane, con le sue lotte e le sue divisioni, rischia di occupare troppo spazio all’interno del libro, ecco che l’autore richiama l’attenzione del lettore: «Sottovalutare, in ragione della successiva interpretazione iconologica che s’intende restituire alla pala verrocchiesca, una divisione così profonda, sarebbe inopportuno. La necessità di situare storicamente il Battesimo di Cristo in una precisa trama di rapporti umani, di circolazione delle idee, di testi, di fatti e di contesti politici consiglia di tenerne conto». (p.35)
Ferranti sa perfettamente come si conduce un’analisi iconologica e padroneggia il metodo, cercando di illustrarlo al lettore, chiamato a riflettere anche su questo punto: un dipinto è fatto di linee e colori, composizione e proporzioni, ma è principalmente un’immagine; e l’immagine ha una sua storia che l’iconologo deve saper raccontare. L’immagine è realizzata dall’artista ma, in questo come nella maggior parte dei casi, è voluta da un committente. Per capirne i messaggi e i significati profondi, è necessario quindi studiare l’ambiente culturale in cui il committente vive e da cui arriva tale immagine. Dopo una attenta disamina di fonti relative alle vicende dei monasteri e degli abati vallombrosani attraverso gli anni, nel terzo capitolo si risolve il drama, proprio come in una tragedia in tre atti; viene restituita l’immagine globale del puzzle attraverso la collezione delle singole tessere – dati storici, documentari e culturali – ricostruendo così il contesto entro cui prende vita il dipinto.
Nelle pagine conclusive l’autore si domanda cosa significhi una tavola con il Battesimo di Cristo e quale funzione avesse il primo sacramento per la religione cristiana, quesito risolto decifrando il significato del rapace in fuga, che finalmente assume il ruolo di protagonista (o di deus ex machina, per rimanere nella metafora teatrale). Non potendo e non volendo rivelare il “finale” della storia, si può solo dire che le premesse non vengono tradite e si trova, in senso ermeneutico, quel rapace che si cercava fin dalla copertina. Il lettore, come lo spettatore dell’antica tragedia, è stato introdotto all’argomento dal  prologo, ha conosciuto gli episodi dei monasteri vallombrosani e le vicende del personaggio-cardine, l’abate Simone, ed è finalmente giunto all’esodo, in cui il rapace spiega e risolve il dramma che si è inscenato. Proprio come il teatro, l’iconologia cattura e tiene col fiato sospeso fino alla fine.
Giorgio Antonioli Ferranti è nato a Gubbio il 24 gennaio 1980. Laureato a pieni voti in Storia dell’Arte all’Università degli Studi di Perugia, dove lavora presso la Galleria Nazionale dell’Umbria, ha concentrato i suoi primi interessi verso la pittura fiorentina e umbra del Quattrocento e Cinquecento, con particolare attenzione a studi d’iconologia.
Data recensione: 27/03/2013
Testata Giornalistica: ilRecensore.com
Autore: Giulia Marchioni