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Accompagnata da un’immagine inedita che ritrae Dino Campana sui monti dell’appennino tosco-emiliano, la prestigiosa pubblicazione Lettere di un povero diavolo. Carteggio 1903-31, è a cura dello studioso più competente circa la vita e le opere

Il carteggio del poeta di Marradi (1903-31) rivela aspetti inediti della sua personalità e della sua opera. E uno scatto fotografico ne mette in discussione l’iconografia

Accompagnata da un’immagine inedita che ritrae Dino Campana sui monti dell’appennino tosco-emiliano, la prestigiosa pubblicazione Lettere di un povero diavolo. Carteggio 1903-31, è a cura dello studioso più competente circa la vita e le opere del poeta, l’argentino Gabriel Cacho Millet (il primo a pubblicare le lettere di Campana nel 1978, Le mie lettere sono fatte per essere bruciate, per Scheiwiller).
L’immagine fotografica è particolarmente importante, sia perché consente di mettere a fuoco l’espressione del Campana sereno, nel suo ambiente naturale, in compagnia degli amici, sia perché serve a colmare un vuoto iconografico dovuto alla recente scoperta di un’attribuzione erronea circa una delle immagini più celebri del poeta: si tratta della foto scattata al Liceo Torricelli di Faenza, la più utilizzata da testi e siti web dedicati a Campana, che ritrae in verità un altro ragazzo marradese, Filippo Tramonti. Lo stesso Cacho Millet si è detto mortificato della scoperta, che lo ha costretto a rimuovere il ritratto appeso alla parete del suo studio, come un cimelio di famiglia.
Il nuovo carteggio riporta numerosi scambi epistolari avvenuti tra l’autore dei Canti Orfici e le personalità dell’epoca. Di grande rilievo la pubblicazione di alcune lettere inedite di Soffici e Papini, protagonisti della vicenda più losca tra le tante che abitano la tormentata biografia del poeta: la perdita del manoscritto originale della prima fatica di Campana, Il più lungo giorno, richiesto ossessivamente e mai ottenuto. Memorabili le formule conclusive delle missive di Dino, con quel misto di cortesia e aggressività («Con nessuna stima per ora vostro»). Il manoscritto agognato sarà ritrovato successivamente, quando ormai il poeta non potrà più beneficiarne, e l’episodio s’inserirà nel solco delle schermaglie irriguardose tra coloro che si riscopriranno, post mortem, cultori appassionati del poeta («Fui io ad accogliere i suoi primi scritti nella rivista letteraria», sostiene Ardengo Soffici con un’esplicita menzogna, dal momento che la palma spetta ai giornali bolognesi «il Papiro» e «il Goliardo»).
Accanto alle curiosità aneddotiche, la raccolta di missive offre uno spiraglio originale per penetrare i temi più controversi circa la figura del marradese. Notizie relative alla sua sofferenza psichica, o presunta tale («Io faccio l’orso, lo strambo, solo con quelli che non hanno gli elementi di sensibilità per cui ci si possa intendere»); manifestazioni di profondo disagio circa il mondo letterario circostante («Mi lascio vivere in un disgusto e in una noia mortale»), e appelli ai medesimi signori della cultura per un qualsiasi lavoro retribuito; dichiarazioni di imminente suicidio («La fatalità incalza»), e smentite conseguenti («Scusa la mia brutta lettera»): tutto in Campana è doppio, ambivalente, in una penosa coesistenza degli opposti. Le pagine sono intrise di dolore, quel «sangue del fanciullo» che il poeta cita a conclusione dei Canti Orfici, mutuandolo dal grande maestro Walt Whitman, e che egli vede ricoprire tutti i suoi detrattori, tutti coloro che lo hanno ostacolato e incompreso. Ossessionato dalla paura di essere dimenticato, travisato, non visto, Campana insegue se stesso negli sguardi altrui, tenta disperatamente di dare corpo e dignità al suo nome tramite risposte esterne: «Per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato».
A questa scissione tra la pulsione profonda, interna, e il bisogno costante della conferma esteriore, della garanzia dell’alterità, Campana non trova soluzione. L’unica integrità che egli forse raggiunge, l’unica quiete, sembra essere quella silente e rassegnata dell’internamento manicomiale («tutto va per il meglio nel peggiore dei mondi possibili»). A Castel Pulci, dove Dino vivrà i suoi ultimi giorni, il poeta si dimostra indifferente alle vicende mondane, persino quelle che lo riguardano. Al fratello Manlio che gli inoltra l’importante recensione degli Orfici per mano di Corrado Pavolini apparsa sul «Resto del Carlino» il 7 luglio 1928, Dino oppone un atteggiamento distaccato e apatico: tutto il contrario di quell’indole indomita, volitiva e persino violenta che caratterizza il primo Campana.
Il carteggio di Cacho Millet mette bene in evidenza gli elementi, ancora una volta, duplici del rapporto più indagato (e più romanzato) del poeta: quello con Rina Faccio, in arte Sibilla Aleramo. Attraverso le parole dei due amanti, e grazie alle testimonianze indirette degli amici e conoscenti, possiamo ricostruire con dovizia di particolari il succedersi vorticoso del legame. «Questa carogna è piombata su me come la collera di Dio e mi ha lasciato distrutto dall’orrore», scrive Dino a proposito di Sibilla, individuandola come causa scatenante del suo malessere invalidante.
Addentrarsi nella rete diagnostica che avvolge e soffoca i disturbi di Campana è un’operazione ardita e probabilmente fallimentare; si incontrano diagnosi di sifilide, di demenza precoce, di disturbi psicosomatici, di scherno del personale medico, tutte date per certe, e opposte con rancorosa sicurezza alle letture differenti. Il fenomeno è noto, così come lo sono i suoi interpreti più vigorosi (su tutti, Sebastiano Vassalli). Per non perdersi in una questione cavillosa e forse inutile, è bene fare un passo indietro e guardare alla doppia cifra della poetica campaniana. Accettare che il mondo di Campana sia un panorama sconfinato, all’interno del quale si trovano elementi eterogenei, antitetici. Quasi che chiunque vi si imbatta, possa portare con sé qualcosa di interessante, qualcosa di azzeccato, caso per caso. Quasi che la sua storia si avvalga di un codice segreto eppur universale, in grado di raggiungere anime diverse, e, allo stesso tempo, forse, di non essere veramente compreso da nessuna. L’equivoco e la militanza ostinata a favore dell’interpretazione personale, allora, se fanno arrabbiare gli studiosi attenti, possono essere ben compresi sul piano emotivo, che è poi quello cui Dino, bello di tormento, si rivolge.
Data recensione: 20/05/2012
Testata Giornalistica: Il Sole 24 Ore
Autore: Arianna Bianchi