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Per Yves Bonnefoy, la fotografia “in movimento” di Lucio Trizzino è «una ricerca di sé, un’indagine proustiana dell’origine, tra epica e lirica»

Per Yves Bonnefoy, la fotografia “in movimento” di Lucio Trizzino è «una ricerca di sé, un’indagine proustiana dell’origine, tra epica e lirica»

La bella raccolta di fotografie che Lucio Trizzino intitola Treno (Polistampa, 2012), preceduta dall’altrettanto poetica introduzione di Yves Bonnefoy Le photographe dans le train (“Il fotografo in treno”, traduzione di Fabio Scotto), realizza quel forte desiderio di “animismo” che spesso riaffiora agli occhi e sulle labbra del “fanciullino”, il quale sussurra deciso al nostro orecchio svagato: «E adesso che siamo “in viaggio” noi possiamo perlomeno fantasticare di un’alleanza tra questo essere in noi, questo io sotto il me adesso reso alla coscienza di sé, e le cose e i luoghi del mondo che ridivengono presenze. Un’alleanza, al fine di umanizzare il dato di semplice natura, di farne una terra in cui vivere: attraverso questo “cambiare la vita” che Rimbaud invocava…» (p. 13). Tale è secondo Bonnefoy il «progetto di fotografia in treno» di Trizzino, il quale come in un racconto suddivide il libro in dodici parti, «elementari» direbbe il poeta Pierluigi Cappello: “Ferro”, “Pioggia”, “Pietra”, “Mare”, “Vento”, “Sera”, “Notte”, “Alba”, “Nebbia”, “Terra”, “Muri”, “Meta”. Ecco allora svelata o “rivelata” l’immagine in piccolo formato del frontespizio, sorta di diapason della memoria, da cui le onde promanano come per un sasso-evento “ac-caduto” nello stagno… L’incipit è subito ferro, elettricità; ma quant’è diversa, “naturale” la luce della luna… Torna alla mente il pirandelliano Ciàula, il suo candido stupore, se non fosse per la metamorfosi del traliccio in sanguigna chele di mantide… (pp. 32-33). Freddi lampi di luce precedono visioni di paesaggi impressionisti che sfumano in secondo piano, trasudando sulla pagina ogni singola goccia di colore – puro, distillato. Tremante, appare una tela pennellata da Vincent van Gogh (pp. 35, 36-38, 39). Altra apparizione: non è forse la piccola casa abbandonata (The Little House) resa celebre daWalt Disney nel 1952? (p. 43). Simile a Giona dentro la balena, con le gambe a compasso e le mani conserte, sull’incrocio di binari, quasi anziano “Vitruviano” leonardesco colto di spalle, «sei ancora quello della pietra e della fionda, | uomo del mio tempo» (Salvatore Quasimodo, Giorno dopo giorno, 1947; pp. 46, 49). Vastità di respiro sul crespo di un mare indaco-lavanda, rabbuiato: in alto, nubi lillacenere; in fondo, banchi di ghiaccio evanescente, contro una striscia di smalto celeste… Sul filo dell’orizzonte, un puntino: la nave di Ulisse. Gonfiando le guance, Eolo soffia sulla costa; ciuffi di canne danzanti, Calipso, Circe, Nausicaa… Febo si nasconde: cerca Dafne… (pp. 47, 51). Hopper, fantascienza, allucinazioni e due scoperte: 1. cirro-medusa gigante?, no, Crocifisso postmoderno “a pecorelle”, a metà fra Superman eMazinga – la testa?, s’è persa nel mare; 2. su luci chiassose di basi spaziali, occhieggia pudica Artemide-Diana, ovattata, velata appena da Sebastiano del Piombo. Mostri dimetallo incatenati si fingono piante; sospirano nuvole di Giambattista Tiepolo… (pp. 55, 56, 58, 62-64, 66-67). Campi arati, pettinati da Camille Pissarro; il ritmo dei pali interseca una fila di alberi. Dal nulla-nebbia emerge L’isola dei morti (1880-1886) di Arnold Böcklin; cespugli amaranto richiamano brughiere d’erica, mentre un albero solitario è sotto «un incantesimo | un tetro pensiero spira dai rami | che ondeggiano solenni e scuri» (Emily Brontë; pp. 68-69, 71-73, 75-77). Nel grigiore mortifero, due camion-lombrichi gareggiano indisturbati, disturbando… Pini/abeti/cipressi-fiaccole (altro van Gogh?) meditano in silenzio («Perché dove sono due o tre riuniti…», Matteo, 18,20); consimili, invece, sono penne di oscuri volatili confitte nell’obliquo terreno-scrittoio e pronte a versare il loro inchiostro… (pp. 78, 80-81). Lieve pendio solare, stoffa grezza lavorata da mani esperte; incontrastato signore, un albero si erge spoglio ma regale, anziano leone. Piani cartesiani verdeggianti; trapunta color caffellatte, lunghi biscotti rigati («Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, | finché non ritornerai alla terra, | perché da essa sei stato tratto», Genesi, 3,19). A ben guardare, si potrebbe scorgere Leon Battista Alberti,ma la Città ideale (XV secolo) è ancora di là da venire… Unica via di “fuga”, un punto, alla sommità del traliccio (pp. 82-84). Fra campi di mais, striscia bianca una strada-biscia… Casupole diroccate – musi sdentati, occhi cisposi, viso irsuto; di sbieco, funambolico filo di luce tessuto da un ragno… (pp. 85-87). La grazia antica di un portico mormora sommessa, imbrigliata dalla superbia di finte torri Eiffel… Ma l’armonia rimane, «vince di mille secoli il silenzio» (Ugo Foscolo, Dei sepolcri, 1807). Ansa di fiume grigioverde stende romantiche sponde in pacato, sensuale contrappunto (l’una protesa, l’altra ritrosa). È solo un attimo (eterno): vigili semafori segnalano ansia da perfomance… (pp. 91-93). Tra la folla, sulla destra, anziana coppia (forse) in partenza: a specchio, giovani sposi asiatici appena giunti, in foggia occidentale… Generazioni, melting pot… (p. 94). Ormai alla fine del percorso, nel cupo grigiore di un anonimo limbo o, meglio, «non luogo» (Marc Augé), l’epifania, un piccolo miracolo: da un manifesto celestiale, una bimba-libellula-farfalla spicca un saltello rasoterra… Come la scritta (ibrido pseudo elementare: «My grande salto | che mi sembra | di volare»), l’immagine sembra riassuma tutto quanto il viaggio, «da Firenze, città della luce di un fiume, […] a Palermo “in riva al mare”, tutt’altra luce» (Yves Bonnefoy, p. 17). E ritorno.
Data recensione: 01/01/2013
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Davide Torrecchia