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L’invito di Ravasi, l’incarico per il Duomo. Così l’affermazione del quarantenne fiorentino indica l’ultima strategia: “Col figurativo ormai non si va più avanti, è un binario morto”

L’invito di Ravasi, l’incarico per il Duomo. Così l’affermazione del quarantenne fiorentino indica l’ultima strategia: “Col figurativo ormai non si va più avanti, è un binario morto”

Poche cosa sembrano oggi lontane come arte contemporanea e fede. Un divorzio di prospettive e di linguaggi che ha fatto male a tutte e due. Eppure, ad aggirare quello che appare soprattutto un equivoco “ufficiale”, dominato dai magisteri (ecclesiastici e culturali), basta “l’ufficiosità” di una provincia, tutto fuorché capitale culturale.
La cantina di un palazzone a Scandicci a fare da atelier. E naturalmente un artista vero. Credente, ma senza proclami. Filippo Rossi si è stupito quando l’anno scorso il lungimirante ministro della cultura di Papa Benedetto XVI, Gianfranco Ravasi, l’ha invitato a festeggiare in Vaticano i 60 anni di sacerdozio del pontefice accanto ai maggiori artisti italiani contemporanei, da Piano a Ceroli, da Paladino a Pomodoro.
«Ero il più giovane, davvero non me l’aspettavo». Si è stupito anche quando l’ex arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, gli ha chiesto per la copertina di un suo libro Egli era nel mondo, ma il mondo..., tavola di schiuma poliuretanica fusa con una vecchia tela di jeans. E non si aspettava neanche di essere scelto dall’arcivescovo di Firenze per il progetto di un nuovo ambone per il Duomo, insieme a big come Paladino e Botta (e poco conta che siano stati tutti esclusi).
«Sono contento, ma non so come interpretare questo interesse» dice Rossi, che intanto ha appena dato alle stampe il primo catalogo, “Opere-Works” (Polistampa, con tavole a colori, euro 38). A chi guarda le tele accatastate nella cantina-atelier, – trionfo di ori e nero, rosso sangue, blu, argento, di materiali poveri, o preziosissimi, la juta dei sacchi e la foglia d’oro, il legno delle traversine e la carta di riso, la schiuma poliuretanica fusa, il catrame, la carta gialla da macellaio, il lapislazzulo – e in cui forse soltanto la Croce, e soltanto per flebili allusioni, scampa alla demolizione del figurativo, il motivo del successo dello schivo artista risulta chiaro: se c’è un modo per evitare, dopo duemila anni di egemonia culturale, l’estinzione del sacro nell’arte, la via non può essere che questa. Ovvio che gli spiriti più attenti, all’interno delle gerarchie, lo abbiano capito.
A chiedergli a cosa si sia ispirato, lui che è nipote di un pittore di maniera come Luciano Guarnieri e ha cominciato col disegno dal vero, Rossi risponde lapidario: «Ci ho provato, ma è un binario morto. Col figurativo non si va più da nessuna parte». Non ci va l’arte in generale, ma nemmeno quella sacra. Parlare dell’Incarnazione oggi richiede molto più di una ingenua rappresentazione da biblia pauperum: «Non puoi più dirlo, puoi farlo solo intuire: e catturare l’attenzione dell’uomo che corre, e fugge, non è come parlare a quello di ieri, che si fermava, e ascoltava». Devi raggiungerlo, costringerlo a fermarsi: «E puoi farlo solo usando la sua stessa grammatica».
Intuire in divino: il problema in fondo, è sempre stato questo, ma il secolo delle avanguardie, dice Rossi, «ci ha consegnato alla rottura di ogni paradigma, e bisogna parlare per lampi, rotture, squarci della materia che cerca il riscatto», altrimenti detto Resurrezione. E così, ecco lo scavo tormentato del polistirolo, del legno, della tela, il nero asfalto che sembra irredimibile e si squarcia, invece, a colpi di acido, e «la pittura che si fa quasi tridimensionale» per scovare in profondità la perla della parabola, una macchia d’oro che abbaglia.
Nel pantheon dell’artista scandiccese tracce metabolizzate della scuola delle icone, dei fondi oro trecenteschi, ma anche di Klimt, e poi la lezione di Congdon, Rothko, Tapies, Ribera, Burri. Innestate su uno sguardo personalissimo, fatto di attesa, capacità di stupirsi, di accogliere: un «non sapere mai da dove cominciare», e un procedere «a volte con un’idea, a volte per caso, attratto da un legno buttato in una discarica come quello diventato il crocifisso della cappella dell’ospedale Meyer». Non che Rossi non si ponga il problema di «come testimoniare la fede oggi».
Se lo pone eccome, ma archiviando una prassi: il credente e l’artista possono essere tutt’uno senza derive integraliste, senza intenti edificanti. «La responsabilità dell’artista in quanto credente sta tutta qui: parlare ai suoi contemporanei, atei compresi, senza imporre niente, solo suggerendo, aprendo varchi, facendo balenare il mistero da una premessa che sembrava negarlo». E che altro sono la nerissima tavola squarciata di Lux in tenebris, e l’estasi d’oro di Magnificat, se non la perfetta sintesi di una fede che postula caduta e redenzione?
Data recensione: 15/05/2012
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Maria Cristina Carratù