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Le luci della ribalta, i silenzi del pubblico, la passione travolgente per la danza: una vita da favola vissuta “in punta di piedi” che prende corpo attraverso i ricordi di una

Le luci della ribalta, i silenzi del pubblico, la passione travolgente per la danza: una vita da favola vissuta “in punta di piedi” che prende corpo attraverso i ricordi di una giovane artista. Se a scrivere poi è la mano di una principessa, la favola allora si stacca dalle pagine e dalle foto del diario per farsi realtà.
Nella vita di Natalia Strozzi c’è tutto questo e qualcosa di più: il suo illustratissimo album di ricordi, che la ritrae accanto ad artisti del calibro di Rudolf Nureyev, Carla Fracci e Alessandra Martinez, è la straordinaria testimonianza di un talento arricchito da esperienze uniche e fortificato dalla volontà di non dimenticarle. Il libro, edito dalla Polistampa, sarà disponibile nelle librerie a partire da marzo: nel mese della mimosa dedicato tradizionalmente alla donna, Metropoli ha deciso di intervistare uno spirito che ha saputo declinare al meglio le vocazioni artistiche dell’animo femminile.
Quando ha capito che avrebbe dedicato la vita all’arte?
«A cinque anni sapevo che avrei ballato. Sono andata a vedere uno spettacolo a Parigi con Nureyev, “La bella addormentata nel bosco”. Il giorno dopo chiesi alla nonna di rimettermi la stessa musica del balletto che avevo visto. Chiesi anche delle scarpette e un tutù e riballai, come potevo, la coreografia per intero, interpretandone tutti i personaggi. Già allora ero convinta, sapevo che sarebbe stata parte così importante della mia vita».
Se e in che modo essere una donna l’ha aiutata nel suo percorso?
«Forse noi donne siamo facilitate, siamo più sensibili a recepire certe emozioni. Siamo anche più resistenti e riusciamo ad arrivare in fondo a ciò che vogliamo, siamo molto determinate. Abbiamo più precisione e più attenzione rispetto ai colleghi maschi, se parliamo di danza poi, l’icona classica è quella femminile: tutù e scarpette, senza comunque nulla togliere al talento maschile».
Che ruolo può avere l’arte nella vita di una donna rispetto a quello della famiglia?
«Dipende da come e dove una persona è cresciuta. L’arte per qualcuno può essere la famiglia stessa. Nel mio caso l’arte mi è stata trasmessa nell’ambiente familiare: c’era il talento ma c’è stato anche tanto lavoro. A 13 anni ho iniziato a vivere fuori casa, studiando danza in Russia. Nonostante questa indipendenza però, tutto quello che ho fatto è dovuto alla mia famiglia di origine, che mai mi ha ostacolato nelle mie aspirazioni e che mi ha cresciuto nell’arte, sostenendomi nelle mie aspirazioni.
Per quanto riguarda una mia famiglia futura, desidero sicuramente averla, perchè alla fine è tutto ciò che rimane: quando si parla di un artista, intorno c’è tutto o niente. In questo momento preferisco pensare alla carriera, ma se capitasse l’occasione non direi di no alla formazione di un nucleo familiare. Il successo poi sparisce e resta fra le cose secondarie».
Perchè ha deciso di abbandonare la danza per la recitazione?
«Non c’è un perchè. È successo piano piano: in Russia è stata l’ultima volta che ho ballato, mi avevano proposto di ballare il primo ruolo di “Giselle” al teatro Kirov, che è sempre stato il mio sogno. Ma era l’anno in cui dovevo sostenere l’esame di maturità in Italia. Così partii, mi diplomai ma non tornai più. Sentii il bisogno di stare con la mia famiglia, a casa, vedere i miei amici, vivere un po’ di quella vita che non ho avuto in Russia, pur non escludendo di tornarvi. Non so spiegare perchè, ma ritardavo sempre la partenza. Dicevo che sarei tornata in Russia, ma non l’ho fatto e ho attraversato un cosiddetto “periodo buio”. Ho proseguito comunque a fare spettacoli, danza e musica, avevo già preso parte ad alcuni film in Russia, così ho iniziato a studiare recitazione. È stata una scelta progressiva e non drastica. La mia paura era che non andasse perduto ciò che avevo fatto finora: questo libro mi ha tranquillizzato. È la consolazione del rimpianto alla carriera che non ho fatto».
Quanto conta essere la discendente di una famiglia nobile come la sua?
«Al giorno d’oggi avere un titolo non serve a niente. Avere degli antenati che hanno contribuito alla storia, però, rappresenta una grande responsabilità, un dovere da proseguire, ma ciò, non cambia il rapporto con il mondo attuale. Anzi, ci hanno insegnato che la nobiltà vuol dire umiltà e rispetto per le persone. Io spesso, quando mi presento sul set, non dico chi sono, e la mia più bella sorpresa è quando le persone lo scoprono e mi dicono “non mi sarei mai immaginato che una principessa potesse essere così simpatica e umile».
Il ricordo più bello della sua infanzia
«La lezione di danza di Nurejev sulla spiaggia. Non dimenticherò mai quell’esperienza e quei momenti unici trascorsi con il genio del balletto».
Il momento più difficile
«Quando partii per la Russia per studiare danza. Avevo 15 anni e il primo anno e mezzo l’ho trascorso da nostri cugini che ancora vivevano, per così dire, “alla sovietica”, cioè in sole due stanze, e con una vasca da bagno arrugginita. Quando dovevo fare il bagno, andavo in cucina a mettere sul fuoco un bollitore e con pazienza riempivo la vasca. Dormivo su un divano e non avevo nessun armadio: avevo attaccato delle grucce ad un tavolo per appendere tutti i miei vestiti. Mi presi anche una bronchite, ma di tutto questo dicevo niente ai miei genitori, forse per paura che mi riportassero in Italia. È stato il momento più difficile ma anche quello più formativo»
Data recensione: 03/03/2006
Testata Giornalistica: Metropoli
Autore: Elena Crescioli