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Si potrebbe fondare una disciplina di critica della poesia solo giudicando le foto dei poeti. Basta guardare una foto di

Si potrebbe fondare una disciplina di critica della poesia solo giudicando le foto dei poeti. Basta guardare una foto di Zanzotto o Sanguineti per capire che i loro versi, per quanto si torcano e sbuffino, a caccia di soluzioni formali originali e moderne, sono a un micron di distanza da ciò che, sui banchi del liceo, i ragazzi chiamano «masturbazione celebrale». Che belle invece le foto di Dino Campana.
Sarà pure maledettissimo d’accatto, ma com’è magnetico lo scatto del 1928 al manicomio di Castel Pulci, in cui il poeta offre un volto granitico; quello di Campana internato e rasato secondo le regole del manicomio è lo sguardo penetrante di un uomo che ha abbandonato il mondo, ha scavalcato la vita, ha scritto il capolavoro e si è disfatto di ogni superfluo.
Non è dunque una piccola cosa, che nella nuova edizione dell’epistolario del poeta, curato dal’infaticabile Gabriel Cacho Millet, Lettere di un povero diavolo. Carteggio (1903-1931) per Polistampa (pag. 496, euro 30), nell’imponente apparato iconografico compaia una fotografia finora inedita, del 1912, in cui Campana, in compagnia di amici, si fa immortalare nel suo habitat primordiale: l’appennino tosco-romagnolo, alla cascata dell’Acquacheta, nome che fa sorridere accostato alla sua vita tempestosa.
COME UN FAUNO
Del resto già Carlo Carrà lo sbeffeggiava per quelle sue ascensioni sui monti: «Si presenti alle Giubbe Rosse - lo storico caffè fiorentino dove si riunivano - vestito di pelle di capra. Farà colpo sui futuristi!». E in una delle lettere dai monti di Marradi, anziché risentirsi per questa etichetta di Zarathustra straccione, Dino scrive: «Bevo l’acqua delle fonti alpestri come un fauno!».
Questa nuova edizione dell’epistolario è accresciuta di 49 lettere per un totale di 221, ciascuna una tessera di un mosaico unico nella storia della letteratura italiana. Campana ancora oggi è in discussione: Carmelo Bene lo considerava il nostro più grande poeta dopo Dante, Umberto Saba lo definì «matto e soltanto matto», l’italianista Pier Vincenzo Mengaldo nella sua antologia della poesia italiana lo bolla come «visivo», lo considera un reazionario, legato alle suggestoni nietzschiane e futuristiche del primo Novecento.
Ripercorrere la sua vita attraverso le lettere è indispensabile per sciogliere alcuni equivoci. Il primo: certo, Campana fu matto. La chiamano «nefrite», la sua fuggevole amante Sibilla Aleramo la chiama «congestione celebrale», e una lettera, riprodotta in una delle appendici al volume, è esemplare. La scrive Leonella Cecchi Pieraccini al marito Emilio, che fu tra i pochi a intuire che Campana era un poeta toccato dalla grazia, oltre che dalla pazzia. «Ma senti che mi capita stamani. Mi capita Campana. Fin qui nulla di eccezionale. l’eccezionale, l’inaudito è stata la conversazione: il monologo, lo sfogo, il suo dire insomma. A momenti mi pigliava quel sottile tremore che si prova dinanzi ai pericoli perché vedevo il viso del mio interlocutore vieppiù alterarsi e gli occhi lustrare come fossero di vetro. Egli era in uno stato di eccitamento verboso e immaginativo che rasentava la pazzia e spesso si tuffava in piena pazzia. Le teorie dei suoi avvenimenti, delle sue torture, avevano spessi degli accenti di magia, di satanica poesia, ma tutto correva così rapido e contorto e difficile che io non ne ho che una memoria lucida sì, ma inafferrabile, inesprimibile. [...]ci vorrebbe davvero al penna di Dostoevskij per seguire soltanto approssimativamente l’impeto di quella fantasia eccitata e malata».
FEBBRILE E SATANICO
Ma a un lettore che si accostasse per la prima volta al suo capolavoro, i Canti Orfici, questa immagine del Campana febbrile, “visivo”, satanico, non farebbe che perpetuare il fraintendimento di Saba, Mengaldo, e quanti ancora oggi lo ritengono un istintivo, un barbaro con sprazzi di vera poesia, come scrive in una lettera Giovanni Boine. A me sembra, al contrario, che Dino Campana sia stato il poeta più lucido e accurato che la lingua italiana moderna abbia avuto in sorte. Le sue poesie come le prose sono sempre logicamente concatenate, la “visività” di cui viene accusato è in realtà un’implicazione di questa scorrevole e fluida consecuzione di scene, sentimenti, impressioni e riflessioni.
Oltre a un talento infallibile per il colore delle parole, per la loro musica, Campana fu poeta filosofico non meno di Dante, capace di rivelazioni psicologiche pari a quelle di Dostoevskij, non casualmente citato nella lettera di Leonetta Cecchi. Fu un estremista, perché di ogni immagine che gli attraversava la fantasia, di ogni idea poetica, andava a caccia degli elementi primordiali. Come ogni pazzo, era un metafisico, si interrogava sulle domande senza risposte, sui misteri originari. Chi si ferma all’incanto sonoro dei suoi versi ribattuti, delle sue evocazioni notturne, è come chi tenti di decifrare un’antica e ricca lingua con, al posto della grammatica e del vocabolario, un bestiario.
Data recensione: 28/12/2011
Testata Giornalistica: Libero
Autore: Giordano Tedoldi