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Il libro di Stefano Berni, La pazza morale, Polistampa 2009, è un’opera bella e molto interessante. Una storia d’amore, nella Firenze dell’800, è occasione per attraversare alcuni grandi temi, intorno al nucleo centrale della follia.

Il libro di Stefano Berni, La pazza morale, è un’opera bella e molto interessante. Una storia d’amore, nella Firenze dell’800, è occasione per attraversare alcuni grandi temi, intorno al nucleo centrale della follia.
Il primo tema è proprio lo scontro tra due diverse concezioni della follia. La prima la considera una malattia fisica, che deriva da una carenza del cervello e si cura con i farmaci. È la convinzione del professor Bini, primario dell’ospedale psichiatrico Bonifazio Lupi di Firenze. La seconda vede invece la follia come malattia psichica, la quale deriva da un’esperienza della psiche che ha invalidato la persona e si cura con un’esperienza diversa da quella patogena capace di rimettere quella persona in movimento. È la posizione del protagonista del libro, il dottor Luigi Bertini. Nel primo caso la follia è considerata un male fisico, nel secondo un male psichico.
Un altro grande tema è poi lo scontro tra due diverse concezioni del folle. La prima vede i folli come diversi, privi di razionalità e perciò non umani, che quindi vanno trattati come bestie da custodire e addomesticare reprimendo la loro aggressività con metodi violenti che soddisfano il gusto sadico di chi li pratica. Questa concezione stabilisce un confine netto che divide folli e normali, normalità e follia, ed è rappresentata dal dottor Chiarelli. La seconda posizione ritiene invece che i folli siano esseri umani, persone, da trattare con il rispetto assoluto che merita ogni persona, e la cui terapia consiste soprattutto nella relazione, nello stabilire con loro una relazione diversa, una relazione umana. Per questa seconda posizione non c’è un confine netto tra folli e normali, tra normalità e follia. Ed anch’essa è rappresentata dal protagonista, Luigi.
Ora queste alternative non sono solo enunciate teoricamente nel libro, ma sono soprattutto messe in pratica, agite. E, nello scontro pratico tra quelli che le mettono in atto, c’è un vincitore, Luigi, che guarisce Laura, la pazza morale, mentre gli altri non guariscono nessuno.
Tuttavia il nucleo centrale, l’aspetto più interessante, del libro, non è tanto l’alternativa riguardo alle concezioni della follia o del folle in generale, quanto il tema specifico della pazzia morale. Dove Stefano Berni realizza un audace accostamento tra pazzia e moralità. Non a caso uno dei personaggi che compaiono nel romanzo è un grande filosofo per il quale questi due sono temi decisivi, del suo pensiero e della sua vita, cioè Nietzsche, che forse non tutti i lettori hanno riconosciuto perché nel libro non ne viene detto il nome, ma c’è ed è l’amico taciturno della baronessa Isa von Meyer. Quel personaggio introverso e misterioso, che entra di soppiatto e passa quasi inosservato, è niente meno che Nietzsche.
Ora la pazzia morale è quella forma di follia nella quale è assente il comportamento morale. Il professor Bini la spiega dicendo che manca o è danneggiata la zona del cervello preposta alla moralità e la cura con i farmaci. Per Luigi invece la pazzia morale di Laura ha le sue radici in un’esperienza vissuta e va guarita appunto con un’esperienza diversa.
Allora qual è l’esperienza vissuta che ha portato Laura alla pazzia? Questo romanzo filosofico psicologico ce lo racconta con il tono della fiaba. C’è la madre strega di Laura, che obbliga la figlia ai lavori più umili e faticosi e ne invidia la bellezza. E c’è un padre debole, che non ha avuto un ruolo attivo nell’educazione della figlia, cioè assente, come nelle fiabe. Dunque Laura è Biancaneve. E aspetta il principe azzurro. Il principe, quando lei è ancora molto giovane, arriva, ed è proprio Luigi, ma si rivela un falso principe. E io credo che non potesse non esserlo, perché il principe azzurro è un ideale, e Luigi invece è una persona reale, che non può essere all’altezza dell’ideale.
Tuttavia qui c’è l’esperienza di una perdita. Laura ha perduto il principe, cioè l’ideale che era il suo oggetto d’amore, e dunque anche l’immagine di sé come principessa. Ora la condizione che corrisponde al sentimento della perdita dell’oggetto d’amore è la depressione. All’origine della follia di Laura c’è dunque un senso depressivo.
Sì che se ne difende con l’opposto, cioè con la mania. Laura è una maniaca. Ma depressione e mania sono legate, due facce della stessa medaglia. E la mania serve a mascherare la depressione. Dietro la mania sta, nascosta, la depressione. La maniaca si dice: non sono depressa, sono euforica. Non sono alle stalle, sono alle stelle. Non vedo tutto nero ma tutto rosa. Non sono inibita e impotente ma disinibita e ho la potenza di sedurre tutti gli uomini. Non provo dolore, il dolore del passato, ma il piacere, il piacere del presente, vissuto come momento assoluto, cioè solutus ab, sciolto da, slegato, privo di legami col passato e col futuro.
E così la depressione si trasforma nel suo opposto, la mania, e la principessa si trasforma...ecco in che cosa si trasforma la principessa? La principessa si trasforma in lupa. Laura è la lupa, divoratrice di uomini. La sua vagina è la bocca della lupa. Un’immagine che evoca subito associazioni letterarie importanti, prima fra tutte, ovviamente, la novella di Verga.
Il lupo nel romanzo è un simbolo importantissimo, è il simbolo del libro. Del resto, in uno scritto che ha qualcosa della fiaba, non poteva mancare il lupo. Che sia un simbolo lo dice già il fatto che è il simbolo stesso dell’ospedale, ma poi lo ammette anche Luigi, alla fine, a proposito del disegno che gli dona Pasquale, un altro malato di mente, disegno che a prima vista sembra un lupo o una tigre, ma del quale Luigi decide subito che è un lupo. E che sia importantissimo lo dimostra il fatto stesso che il romanzo si apre con Pasquale e si chiude con Pasquale, che ha il volto di un lupo, cioè si apre e si chiude con il lupo. Il lupo è inizio e fine. Il libro ha struttura circolare, dal lupo al lupo, o meglio ha la forma di una spirale in quanto con il punto d’arrivo si torna sì al punto di partenza ma in modo diverso e più elevato perché nel frattempo c’è stato un cambiamento, la guarigione di Laura.
Comunque il simbolo del lupo agisce qui nella sua totalità, cioè nella sua ambivalenza, nel suo significato positivo e negativo. Pasquale e Bonifazio Lupi rappresentano il lupo positivo, Laura il lupo negativo.
Pasquale è il licantropo, che delira quando c’è la luna piena, ammette che non gli piace la luna e sostiene che ognuno di noi è un licantropo perché ha una parte uomo e una parte lupo. Pasquale, che alla fine salva la vita a Luigi, rappresenta il lupo salvifico, benefico, protettivo, come la lupa di Romolo e Remo e i lupi di Mowgli nel Libro della giungla di Kipling. Allo stesso modo anche Bonifazio Lupi, il fondatore, che nel 1300 aveva ideato il nosocomio per fare del bene accogliendo poveri e malati, rappresenta anch’egli il lupo positivo. Bonifazio Lupi è il lupo che ha un buon fato (bonus fatus), cioè il lupo fortunato perché ha la fortuna di fare del bene (bonum facere).
Laura, invece, la lupa, rappresenta il lato negativo, la passione vorace, distruttiva e divorante, dove l’eros è a servizio di thanatos perché con quell’eros lei non dà vita ma dà morte alle sue parti migliori.
Ecco se l’esperienza della delusione per la perdita dell’ideale del principe è quella che porta Laura nella follia, qual è invece l’esperienza che la fa uscire dalla follia? È appunto l’esperienza diversa che ora le permette di fare Luigi. Qual è? Luigi le dice qualcosa di nuovo e di diverso dagli altri. Gli altri, col loro comportamento, abusando di lei, le confermano la sua follia, le dicono Sì tu sei la lupa. Invece Luigi le crea un urto perché non la conferma e col suo comportamento le dice l’opposto: no, tu non sei la lupa. Sei Laura. Diventando la lupa Laura ha ceduto alla madre strega che le dice tu sei indegna e la vuole eliminare. Ha dato ragione alla madre: sì, sono indegna e devo essere reclusa ed esclusa dal mondo. Ma Luigi si oppone alla parola della madre strega e dice a Laura: tu non sei indegna, e devi ritornare nel mondo. Luigi la aiuta a riannodare i suoi fili, a ristabilire i legami, del presente col passato e col futuro, a ristrutturare la propria identità di Laura. E tutto questo lo fa soprattutto col comportamento, comportandosi cioè in modo affettivo, e così risvegliando anche l’affettività di lei. E, orientandola verso il lavoro, la tessitura, Luigi l’aiuta a ritrovare la propria attività e la propria creatività, che aveva perdute, dove è chiaro che, tessendo e filando, la vera attività di Laura è quella di tessere e filare i fili della propria storia.
Luigi sente di doverla aiutare perché si rende conto, a un certo punto, di essere stato lui l’occasione che ha scatenato la pazzia di Laura. Alla ricerca delle cause della sua pazzia, capisce che la causa è lui. È stato lui che, al tempo della loro relazione, prima l’ha illusa e poi, abbandonandola, l’ha delusa, giustificandosi di fronte a se stesso con una motivazione assai poco nobile, nella quale esce fuori una parte bassa di lui: difficilmente la mia famiglia avrebbe acconsentito che io sposassi un’umile contadina. E allora, giacchè lui è il responsabile della pazzia di Laura, spetta a lui riparare, così compie la propria espiazione salvandola. Salvando lei dalla follia salva anche se stesso dalla colpa. Luigi è non solo il responsabile della pazzia ma anche il salvatore dalla pazzia. Luigi è prima il traditore e poi il salvatore: Giuda più Cristo. Del resto ha 33 anni, come gli anni di Cristo, al quale viene esplicitamente associato, in un punto del libro, da Pasquale.
Ora quest’opera di salvezza non è istantanea. È un percorso, una via di guarigione che è una via di liberazione scandita da alcuni momenti salienti.
Il primo è la risata. A un certo punto Luigi scoppia in una grande risata, ma ciò che più conta è che la sua risata si trasmette a Laura, perché è il primo segno di una condivisione e una complicità tra di loro. Non solo, ma con quella risata entrambi cominciano a sdrammatizzare, a ridimensionare il problema, che così inizia a non sembrare più insormontabile. E quando un problema non appare più insormontabile, inizia a farsi spazio la voce che dice ce la posso fare.
Il secondo momento, sulla via della guarigione, è l’abbraccio. L’abbraccio è qui un gesto di pacificazione. È il gesto simbolico con cui Luigi e Laura fanno la pace. Perché erano in guerra, da lungo tempo. Da quando lui l’aveva abbandonata. La pazzia di Laura è alimentata da un antico rancore. È una lunga vendetta. La pazzia è il suo modo per dirlo. Ma con quell’abbraccio la sua affettività, che era rimasta congelata e immobilizzata nel rancore e nella vendetta, comincia a sciogliersi.
Il terzo momento è la parola: Luigi parla, narra, racconta. La parola, il verbo, è il seme maschile che penetra l’orecchio di Laura, un altro simbolo del suo sesso di donna. E feconda. Cioè genera. Dalla parola furono generate tutte le cose. E la parola, il verbo, fu donato per la salvezza dell’uomo. Platone scrive che il corpo si cura con le medicine, e l’anima si cura con le parole. La parola di Luigi è il seme di salvezza che feconda l’anima, la guarisce, e da questa unione della parola maschile e dell’anima femminile nasce una nuova Laura.
Il quarto momento è il canto. La parola diventa canto. Il canto è la voce dell’anima, affine alla poesia perché è creazione dello spirito, espressione delle emozioni più intime. Cantare insieme è stabilire un legame profondo, è creare un momento incantato. Con il canto Luigi e Laura si preparano a fare l’incantesimo, la magia, di una trasformazione.
Infine l’ultima tappa, il momento culminante e decisivo, un momento simbolo: il bacio. Quel bacio è il bacio con cui il principe, che finalmente è arrivato, risveglia la principessa dal sonno della follia. La quale dunque, così, ritrova il principe, l’oggetto perduto.
E tuttavia incontriamo qui un aspetto problematico del libro. Ci si aspetterebbe infatti a questo punto il lieto fine, la principessa che sposa il principe. Invece no. E allora, ecco la domanda: perché lei non lo sposa? Questa volta lui sarebbe disposto a dire di sì, ma ora è lei a dire di no. Gli scrive una lettera nella quale dice tu saresti il medico, io la paziente. Sì ma lui non è solo medico, è di più, è anche figura di Pigmalione.
Pigmalione, come racconta il mito, si creò nella mente una donna ideale, la scolpì in un avorio bianco come la neve e se ne innamorò a tal punto che la dea Afrodite diede vita alla sua statua. Luigi, novello Pigmalione, ha formato Laura, le ha fatto conoscere il sesso, le ha insegnato a leggere e a scrivere, l’ha gettata nel sonno della follia, l’ha risvegliata dalla follia, l’ha fatta ammalare e l’ha guarita. Lei è la sua creatura e lui il creatore. E allora, se prima era il traditore, adesso rappresenta il padre buono e forte, sostituto del padre assente, che l’ha creata e ora la strappa all’influenza malefica della strega. Luigi diventa adesso, come Pigmalione, figura di padre. Nel momento del canto Laura canta la canzone che da bambina cantava col padre, e adesso la canta con Luigi, che quindi ha preso il posto del padre, sedendo sulle sue gambe, come una bambina che siede sulle ginocchia del padre.
Ecco a mio parere il segno della sua guarigione, ciò che testimonia che Laura è guarita, è proprio il suo no, il no che rivolge a Luigi. Lei capisce che non ama veramente lui, ma vede in lui un simbolo, e non dipende più da lui perché non dipende più da questo insieme di simboli, né dalla madre strega né dal principe salvatore. Ha fatto un passo sulla strada della sua indipendenza, si affida a se stessa e non aspetta più la salvezza dall’altro. Svegliarsi. Svegliarsi vuol dire che è morta la lupa, ma insieme è morta la principessa, perché la principessa è l’altra faccia della lupa, e mentre muoiono insieme la principessa e la lupa comincia a nascere la persona, la donna. Scrive a Luigi nella sua lettera finale: ho deciso... quale futuro ci attenderebbe insieme? Tu continueresti a curarmi e io rimarrei la tua paziente. No, non voglio che si realizzi tutto questo. Io voglio vivere liberamente la mia vita, decidere indipendentemente da tutto e da tutti. Se presto uscirò di qui, voglio costruirmi una vita nuova...Se avesse sposato Luigi sarebbe rimasta dipendente e bambina in un rapporto incestuoso con una figura paterna.
Ma con tutto questo non siamo ancora giunti al nucleo, al tema principale del libro. Siamo ancora alla superficie. La domanda decisiva è infatti: perché pazzia morale? Qual è il significato di questa espressione? Bisogna capire il senso del rapporto tra moralità e follia, altrimenti il senso stesso del libro sfugge. Per Bini significa “pazzia che deriva da mancanza di moralità”. Ma allora perché la definisce pazzia morale e non amorale, come sarebbe logico? Luigi stesso se lo chiede ma altrove osserva: mi resi conto che la dizione di pazzia morale, per motivi opposti a quelli proposti da Bini, calzava fin troppo bene a Laura, ossiaLuigi ammette che l’espressione pazzia morale è adeguata e tuttavia ritiene che essa indichi non un difetto, come sostiene Bini, ma l’opposto, ossia un eccesso di moralità.Per Luigi la pazzia morale è la patologia causata non da poca ma da troppa moralità.
A mio parere però il dissenso con Bini su questo punto è solo apparente, superficiale, perché io credo che profondamente siano d’accordo. Bini in fondo sa che proprio la moralità è qui fonte di follia, ma, giacchè non vuole ammettere che qualcosa di sacro come la morale possa generare qualcosa di tragico come la follia, allora dice l’opposto, che la follia è dovuta a mancanza di moralità, e però, con una sorta di freudiano atto mancato, ciò che veramente pensa viene fuori lo stesso nel linguaggio e la chiama non pazzia amorale, come sarebbe logico per la coscienza, ma pazzia morale, come lo spinge a dire l’inconscio. Ritengo che l’espressione pazzia morale sia un atto mancato, un’espressione dell’inconscio. Pertanto Bini è d’accordo con Luigi perché inconsciamente anch’egli pensa che causa della patologia sia qui appunto la moralità. L’inconscio, dunque, suggerendo l’espressione pazzia morale, ha indicato proprio la definizione più coerente.
E tuttavia, per comprendere cosa questo significhi è necessario tornare ad aggiungere che si tratta di un eccesso di moralità. Non è la moralità come tale ma il suo eccesso che è causa di malattia. Però dobbiamo ugualmente capire cosa significa impazzire pereccesso di moralità. A mio parere vuol dire questo: vivere la moralità come un assoluto. La pazzia di Laura deriva da uno scenario interno di tipo morale che chiamerei lo scenario dell’assoluto, del tutto o nulla, bianco o nero, aut aut: o principessa o lupa, o alle stelle o alle stalle, o tutta pura, Biancaneve, o tutta sporca, la lupa, o buona o cattiva, o bene o male. Ma l’alternativa secca bene male è appunto la coppia morale per eccellenza.
Laura è malata di moralità, di una moralità assoluta. Dove la moralità è appunto vissuta come il cerchio bene male, che sono però in fondo la stessa cosa perché entrambi assoluti, due facce della stessa medaglia. E solo apparentemente la lupa è amorale perché, anche se è nel male, è dentro il cerchio, il cerchio bene male, cioè dentro il cerchio morale.
La pazzia morale è quella pazzia che può derivare da una moralità spinta talmente all’eccesso da diventare assoluta. Dove però il primo termine falsifica e smaschera il secondo. Il termine pazzia falsifica il termine morale perché indica che quella morale è una falsa morale. La morale assoluta, la morale del tutto o nulla, è una falsa morale. Forse, probabilmente, la vera morale la si trova quando si mette un piede fuori dal cerchio. Mettere un piede fuori dal cerchio significa mettere in dubbio l’assoluto e cominciare ad andare al di là del bene e del male, pensati come assoluti. Io credo che non sia un caso che Nietzsche abbia fatto personalmente ingresso nel libro. È venuto per dire questo. Anche se non dice niente, la sua stessa presenza, il suo solo esserci, basta per dire questo. E a mio parere questo è proprio il sentiero che Laura ha cominciato a percorrere, portando al tramonto il bene e il male come valori assoluti già scritti in lei, dei quali era schiava, e permettendosi la libertà di cercare di capire che cosa per lei è veramente importante, cosa vale davvero, generando così valori dall’interno, non subiti ma voluti, espressione della sua voce, non di quella della madre strega o del principe o di nessun altro, alla ricerca di una morale vera.
Quando la morale è una vera morale, non è causa di follia.
E in fondo anche questo è un lieto fine. Come vogliono le fiabe.
Data recensione: 13/06/2011
Testata Giornalistica: Salotto Conti
Autore: Paolo Vannini