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A conclusione dei lavori di restauro dei frammenti della Fonte Gaia di Jacopo della Quercia, effettuati dall’Opificio di Firenze, e della

A conclusione dei lavori di restauro dei frammenti della Fonte Gaia di Jacopo della Quercia, effettuati dall’Opificio di Firenze, e della conseguente collocazione di questi reperti negli spazi espositivi dell’Ospedale Santa Maria della Scala, è stato pubblicato un volume di notevole interesse e di bella veste grafica, curato da Enrico Toti e Sara Dei. Questo libro, elegante senza essere vanamente sontuoso, getta luce su molti aspetti della storia secolare che riguarda la celebre fontana, incentrandosi soprattutto sulla fortuna, e spesso sfortuna, otto-novecentesca riservata al monumento. La vicenda della fontana di piazza ha inizio ben prima che Jacopo mettesse mano alla sua opera e nelle pagine di Duccio Balestracci, poste all’inizio del libro, si ripercorre infatti la preistoria di questa magnifica suppellettile, fin dalle sue origini trecentesche. Ma fu solo dopo la morte nel 1402 di Giangaleazzo Visconti e in un periodo di relativa pacificazione con la vicina Firenze che la signoria di Siena decise nel 1408, di affidare a Jacopo della Quercia, suo maggiore scultore, l’impresa di una fonte marmorea di nuove forme monumentali. Sara Dei, autrice della maggior parte dei saggi di approfondimento, prende in esame la tipologia singolarissima della fontana, che non ha precedenti e le cui inedite forme parrebbero trovare analogie più con monumenti funebri trecenteschi che con analoghe strutture o bacini idrici. La giovane studiosa esamina anche l’iconografia dei rilievi scolpiti da Jacopo, che presentano motivi cari alla tradizione senese fin dall’epoca aurea del governo dei Nove. Alle tradizionali figurazioni trecentesche si univa però una nota più propriamente antichizzante, rappresentata dalle statue di Rea Silvia e da Acca Larenzia, accanto a quella della lupa che allatta i due gemelli. Questo aspetto iconografico intendeva rinviare alle mitiche origini della città, alla sua filiazione da Roma e alla conseguente autonomia da Firenze. Nessuno scultore più di Jacopo poteva assecondare, con il suo vigoroso plasticismo che sarebbe poi stato tanto caro a Michelangelo, l’ambizione antiquaria di questa cultura umanistica ai suoi esordi. l’analisi culturale e stilistica dell’opera nel contesto dell’attività di Jacopo appare forse quella più carente nel volume, anche se era già stata affrontata in modo più diffuso nel catalogo della recentissima mostra Da Jacopo della Quercia a Donatello. Le arti a Siena nel primo Rinascimento (Siena, 2010), dove la sezione dedicata allo scultore senese era curata da una specialista in materia come Laura Cavazzini, che in questa occasione firma solo un asciutto profilo di Jacopo. Ma bisogna ricordare che siamo ancora in attesa di uno studio scientifico completo e moderno sull’artista, se escludiamo quello, per molti versi discutibile, di James Beck del 1991.
Come anticipato, l’interesse precipuo del volume concerne invece la fortuna successiva, soprattutto quella ottocentesca. Fu nell’ambito della cultura purista che si decise di rimuovere l’antica struttura e di sostituirla con una “copia” moderna. l’appello del 1844 di Gaetano Milanesi e Gasparo Pini per una “copia in marmo in tutto uguale” non ebbe riscontro se non molti anni più tardi quando, alla vigilia della presa di Roma, fu inaugurata la “copia” realizzata da Tito Sarrocchi, allivo di Giovanni Duprè e spesso esecutore dei progetti approntati dall’architetto Giuseppe Partini. Dal principio partiniano del restauro integrativo, ben rispondente al gusto estetico contemporaneo, si era poi passati a una libera copia: le molti parti ormai lacunose dei marmi di Jacopo venivano rifatte di sana pianta, in uno stile che diremmo – per riprendere il bel testo di Massimo Ferretti – più educato sui delicati modi protorinascimentali di Desiderio e di Rossellino che consono a quelli vigorosamente gotici, carichi, a tratti drammatici, di Jacopo. La nuova fonte veniva poi isolata nel suo spazio da una cancellata che avrebbe impedito il logorio dell’uso ma che l’avrebbe trasformata definitivamente in un monumento. Intanto i marmi originali venivano riparati nel Museo dell’Opera del Duomo e sulla realizzazione del Sarrocchi, percepita sempre più come arbitraria e glaciale, iniziava a stendersi il velo impietoso del disinteresse.
Nel 1904, Corrado Ricci decise di collocare i marmi della fonte nella Loggia dei Nove, sul retro del Palazzo Pubblico, disponendo intelligentemente i frammenti contro le pareti, a emulare la disposizione a U della fontana. Il semioblio in cui sono caduti i calchi e i modelli in stucco del Sarrocchi è durato in sostanza fino ai nostri giorni, e si vedano nel volume le pagine di Fabio Gabrielli. Al nuovo allestimento della fonte nei locali di Santa Maria della Scala si deve invece la piena rivalutazione dei modelli ottocenteschi che, accostati agli originali e alle copie tratte nel 1859 da quegli antichi marmi permettono al visitatore di acquisire più dati di conoscenza sul capolavoro del grande maestro senese.
Data recensione: 01/02/2012
Testata Giornalistica: L’Indice dei Libri del Mese
Autore: Alessandro Angelini