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“La bestia meno studiata dai naturalisti è l’uomo” scriveva Paolo Mantegazza nel 1852. Frequentava allora, come il suo compagno di quattro anni più giovane Cesare Lombroso

“La bestia meno studiata dai naturalisti è l’uomo” scriveva Paolo Mantegazza nel 1852. Frequentava  allora, come il suo compagno di quattro anni più giovane Cesare Lombroso, l’Università di Pavia, dove entrambi si sarebbero laureati in medicina per divenire in seguito, con affinità a e differenze, luci e ombre, importanti protagonisti della ricerca tardo ottocentesca sulla natura umana.
Sette anni dopo quell’affermazione Charles Darwin, pubblicando L’origine della specie, metteva a disposizione della comunità scientifica un potente strumento interpretativo, aprendo una nuova epoca nello studio di questa “bestia” così poco nota e influenzando profondamente la vita scientifica di Mantegazza. Evoluzionista convinto ma “darwinista con beneficio di inventario”, come egli stesso si definì, Mantegazza fu uno degli studiosi italiani che più si impegnarono nella difesa e diffusione delle nuove idee. Al centro dei suoi interessi vi fu la specie umana: per Mantegazza l’antropologia, intesa come “storia naturale dell’uomo” deve studiare la nostra specie “sotto il rapporto della costituzione fisica, come sotto il rapporto dello stato intellettuale e sociale”. L’impegno in questo progetto di ricerca lo vide titolare, nel 1869 a Firenze, del primo insegnamento europeo di antropologia ed etnologia e fondatore nello stesso anno del Museo nazionale di Antropologia ed Etnologia. L’anno successivo creò l’“Archivio per la Antropologia e la Etnologia”, prezioso strumento di dibattito e di pubblicazione di risultati di ricerca.
Ma Mantegazza, personalità poliedrica, non fu solo antropologo. Fu igienista, patologo, fisiologo, psicologo, oltre che viaggiatore e scrittore. Il suo nome richiama alla memoria libri che ebbero grande successo all’epoca, da Un giorno a Madera alle varie “fisiologie”: Fisiologia del piacere, Fisiologia del dolore, Fisiologia dell’odio e altre ancora. I suoi scritti più propriamente antropologici sono molto meno noti, spesso pubblicati su riviste non diffuse presso il grande pubblico, come l’”Archivio da lui stesso creato”. Molti di essi sono però di grande interesse, oltre che di piacevole lettura.
A Giulio Barsanti e Fausto Barbagli dobbiamo la cura di un volume che ne presenta una scelta. Il saggio introduttivo a firma di Barsanti, intitolato Un “poligamo di molte scienze”. L’antropologia a tutto campo di Paolo Mantegazza, ci presenta il personaggio e il suo pensiero. I testi che seguono, pubblicati in versione integrale, toccano vari temi, da aspetti della ricerca e dell’insegnamento in antropologia a questioni relative all’unità e diversità della nostra specie, da argomenti di psicologia a interpretazioni della teoria di Darwin. Questi testi rappresentano, nel complesso, una lezione di metodo e un invito a riflettere sulla necessità di considerare l’essere umano in modo integrato, evitando di separare natura e cultura, un messaggio molto forte che un secolo dopo avrebbe visto Edgar Morin prendere posizione contro la filosofia dominante fondata sull’opposizione tra le concezioni di individuo umano e animale, di cultura e natura. Un messaggio di grande rilevanza che, in campo museale, non riesce a svilupparsi nella Firenze di Paolo Mantegazza, dove il museo da lui creato è oggi solo etnografico e dove il progetto di sviluppo di un settore di antropologia fisica e di paleoantropologia incontra difficoltà di varia natura. D’altra parte, in un’altra culla della ricerca antropologica, la Parigi dove Paul Rivet creò nel 1937 il Musée de l’Homme, questo messaggio di integrazione ha ricevuto negli anni scorsi un grave colpo dallo spostamento delle collezioni etnografiche in un museo appositamente creato sulla sponda opposta della Senna, il Musée du Quai Branly.
Alcuni testi riproposti nel volume invitano a riflettere anche su un altro argomento. Si è spesso insistito nel sottolineare la concezione gerarchica, razzista, dell’antropologia ottocentesca. Certo, nelle affermazioni e nelle raffigurazioni pubblicate da molti antropologi dell’epoca questa interpretazione appare evidente. Ma al proposito è interessante leggere il saggio Dei caratteri gerarchici del cranio umano. Studi di critica craniologica, pubblicato nel 1875. Su un campione di duecento crani del suo museo, di varia provenienza geografica, Mantegazza rilevò dieci misure, scelte tra quelle più usate in craniometria.
Applicando con la collaborazione di due colleghi una sorta di blind test, li dispose quindi in ordine gerarchico, dal più “olimpico”al più “pitecoide”. Tra il primo, un romano antico e l’ultimo, un toscano di Impruneta, troviamo variamente disposti maori, egiziani antichi, neocaledoniani, calzolai fiorentini, dinka, aborigeni australiani, accattoni bresciani, Ugo Foscolo, daiacchi, albanesi, greci, ungheresi... Queste misure, insomma, non consentono di stabilire limiti tra “razze”: è un messaggio illuminato e fortemente antirazzista, che altri antropologi, come Paul Topinard, avrebbero ripreso, anticipando affermazioni che la moderna ricerca biomolecolare ha pienamente confermato.
Data recensione: 01/03/2011
Testata Giornalistica: L’Indice dei Libri del Mese
Autore: Giacomo Giacobini