chiudi

Uno dei temi più suggestivi, sia per gli studiosi delle relazioni internazionali che per quelli di diritto internazionale, è l’argomento della personalità giuridica internazionale della Santa Sede. Esso si riflette nelle grandi tendenze della politica vaticana, che coinvolgono in ugual misura gli storici e i giuristi: ne abbiamo dato di recente un esempio in questa Rivista, esaminando il volume del Barberini sulla Ostpolitik della Santa Sede (Rspi, aprile-giugno 2009, n. 2, p. 317). Ora facciamo un passo indietro: siamo negli anni della prima guerra mondiale, che furono vissuti oltre Tevere con un grande fervore di attività, anche se in quel tempo la Santa Sede non aveva ancora al suo attivo il trattato e il concordato del 1929, e per far ammettere la sua personalità poteva fondarsi solo sul riconoscimento della scienza giuridica e sulla prassi diplomatica.
Tutto ciò è ben messo in luce, nella sua prefazione, dal Margiotta Broglio, il quale, citando il d’Avack, sottolinea come «[...] indiscutibile che anche dopo il 1870 la Santa Sede rimase nel diritto positivo un vero e proprio soggetto giuridico internazionale» (p. 5). L’aver dunque conservato il suo carattere sovrano permise al successore di Pietro di intervenire in vari modi: sia, sul piano politico, per proclamare l’imparzialità della Chiesa e portare avanti iniziative di pace; sia, sul piano umanitario, per tentare di mitigare le asprezze del conflitto bellico, adoperandosi in favore dei prigionieri di guerra, degli internati civili, dei deportati e di altre categorie di vittime.
Con vivo interesse il giurista segue il cammino percorso dalla Santa Sede nel confrontarsi con il Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr), avente sede a Ginevra, e con le varie delegazioni nazionali della Croce Rosse stessa. Come nota l’autore, «[...] durante la guerra i rapporti furono improntati all’insegna di un doppio binario: quello della collaborazione e quello della concorrenza. Da parte vaticana pesavano le diffidenze verso un’istituzione largamente influenzata dalla cultura e dalla spiritualità protestante, nella quale non mancavano le componenti anticlericali e massoniche» (p. 262).
Certo, il Cicr aveva il vantaggio di un riconoscimento giuridico internazionale, fissato dalla convenzione di Ginevra del giugno 1906 «[...] pour l’amélioration du sort del blessés et malades dans les armées en campagne». Fu così che, avvalendosi del suo prestigio e autorità, il presidente del Comitato, Gustave Ador, inviò nel febbraio 1915 un appello al cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato dal 13 ottobre 1914. L’appello concerneva il rimpatrio dei prigionieri, chiedendo l’intervento del Santo Padre, «la cui voce era sempre ascoltata» e che sarebbe stato «infinitamente prezioso». Ma, a parte questo episodio, i rapporti tra Vaticano e Croce Rossa furono più di concorrenza che di collaborazione, e il relativo paragrafo (pp. 252-269) è oltremodo illuminante.
Negli ultimi anni, anche a seguito dell’entrata in vigore dello statuto di Roma della Corte penale internazionale, competente, tra gli altri reati, per i crimini di genocidio, si è avuto un risveglio d’interesse per la questione armena e i massacri avvenuti nel 1915-1916. All’argomento l’Autore dedica un importante capitolo (pp. 327-339), mettendo in luce i vari tentativi d’intervento della Santa Sede, che culminarono in una lettera di Benedetto XV al sultano Maometto V in data 10 settembre 1915, nella quale tra l’altro si legge «Noi crediamo, Sire, che tali eccessi avvengano contro il volere del governo di Vostra Maestà». Così purtroppo non era, e la cerimonia di consegna della lettera da parte del delegato apostolico (27 ottobre 1915) fece risaltare ancora di più la condizione d’irrilevanza politica del sultano, figura meramente rappresentativa. «Tuttavia – nota l’Autore – l’intervento di Benedetto XV, unito alle altre forme di pressione diplomatica, ebbe certamente un peso nel limitare i massacri» (p. 335).
Dall’Armenia, poi, l’attenzione vaticana dovette spostarsi ad altre tormentate regioni del Vicino Oriente, come Siria e Libano, dove dal 1916 si diffusero voci su possibili stermini di cristiani. Vi fu una nuova lettera del papa al sultano (12 marzo 1916) e la Santa Sede svolse energici interventi diplomatici «[...] dal contenuto fermo e inequivocabile, che ebbero senz’altro il loro peso nell’impedire nuove stragi che, a quanto sembra, erano state già pianificate» (p. 339).
Un ricco e interessante volume, dunque, che si completa con una copiosa bibliografia e con l’indice dei nomi.  
Data recensione: 01/07/2010
Testata Giornalistica: Rivista Studi Politici Internazionali
Autore: Giorgio Bosco