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Antonio Pizzuto è considerato il narratore più temerario del nostro Novecento. Per esser precisi bisognerebbe aggiungere che la sua novità si misura tanto con la tradizione ripudiata che con i propri stessi esiti. Il suo programma

Antonio Pizzuto è considerato il narratore più temerario del nostro Novecento. Per esser precisi bisognerebbe aggiungere che la sua novità si misura tanto con la tradizione ripudiata che con i propri stessi esiti. Il suo programma, volto al superamento del naturalismo, sconta poi il bisogno di sorpassarsi, una sorta di “coazione a non ripetere”. Ogni suo libro è un hapax (unico, che compare una sola volta. N.d.R.). Lo confermano ancora i due titoli, affidati alla competenza di Gualberto Alvino, che coronano la fioritura editoriale di questi ultimi anni: l’edizione critica commentata di Pagelle e la ristampa nei Tascabili Bompiani di Si riparano bambole (l’editore milanese ha in cantiere anche un’Omnia pizzutiana, da allogare nella collana dei classici).
Trovarli insieme mi fa rivivere il soprassalto che è all’origine del mio interesse per Pizzuto, ormai diventato ragione di vita. Difficile dimenticare quella sera dell’estate 1989, quando, in un campeggio di Punta Ala, cominciai a compulsare i reperti del dismesso Saggiatore – Si riparano bambole e le due “puntate” di Pagelle con traduzione francese a fronte e commento, sempre in lingua, di Madeleine Santschi – che avevo, mesi prima, attinto a una bancarella di usati, incuriosito dalle eccentriche titolazioni e dal cognome siciliano: endiadi che prometteva una ennesima epifania della “corda pazza” di pirandelliana memoria. La realtà superò di gran lunga le attese. I due libri non potevano essere più spericolati; ma apparivano così estranei che, mancando il nome dell’autore, si sarebbero a stento potuti ricondurre a una stessa mano. A pensarci bene, il «lungo studio» di Pizzuto non è stato che un modo di misurare questo enigma.
La storia di Pizzuto è la storia di una vocazione differita o, meglio, pervenuta in ritardo. Pizzuto esordisce ufficialmente nel 1959, a sessantasei anni, con Signorina Rosina, che si distingue subito per l’audacia della concezione: lo spezzettarsi del racconto in un arcipelago di microstorie e l’«allucinato nominalismo » (per cui la signorina Rosina del titolo è di volta in volta una vecchia zia morente, una zingara, una cuoca, una donna con voce di basso, un gruppo di asini, una nave, un’isola e varie altre cose) mettono a rumore la società letteraria e guadagnano consensi nella cerchia della nascente neoavanguardia.
Pochi sanno che questo inizio è anche il traguardo di un percorso lunghissimo, che risale almeno al 1923, quando Pizzuto concepisce la “riforma” cui dedicherà la vita. In quell’anno infatti Pizzuto, vicecommissario della questura di Palermo, scrive la sua prima Sinfonia, sorretta dall’idea che una narrazione moderna non è più tenuta alla coerenza tutta esteriore di avvenimenti mossi da una catena di cause ed effetti, ma può risolversi in una libera tessitura di «orditi svariati», interamente 1912, mentre risultano dispersi il manoscritto Le aquile – a suo tempo sottoposto al giudizio di Alessandro D’Ancona – e una «specie di tragedia in cinque atti». Dopo la laurea in legge (1915), conseguita per continuare la tradizione del padre avvocato, Pizzuto si consacra a severi studi filosofici sotto la guida di Cosmo Guastella, fautore di un empirismo radicale, depurato da ogni residuo metafisico. Questo cammino si interrompe bruscamente nel 1918, quando ineludibili necessità economiche lo inducono a intraprendere la carriera che sembra l’esatto contrario delle sue aspirazioni.
Il nostro “riformatore” è dunque tutt’altro che estemporaneo. E la “traversata del deserto”, dilatando oltremisura l’apprendistato, non farà che affinare i suoi già forbiti strumenti. Nell’estenuante interludio che precede la sua emersione, Pizzuto continuerà caparbiamente a coltivare i due rami della sua formazione; e avrà anche modo di consumare le importanti esperienze di vita che ne nutriranno la narrativa.
Il versante letterario della Bildung pizzutiana comprende un ampio arco di letture – rigorosamente in originale e spesso accompagnate da esercizi di traduzione di cui rimane traccia nell’opera – spazianti dall’amatissimo Petrarca ai prediletti grecolatini (Platone, Aristotele, Omero, Tucidide, Ovidio, Orazio, Cesare, Cicerone, sant’Agostino), dai classici moderni (Shakespeare, Rabelais) a contemporanei come Proust, Thomas Mann, Joyce. Il dominio speculativo, oltre la frequentazione di autori come Husserl, Jaspers, Heidegger, contempla un’attività pubblica – distribuita nella collaborazione con la Biblioteca Filosofica di Giuseppe Amato Pojero e nella traduzione dei kantiani Fondamenti alla metafisica dei costumi – e una di assidue riflessioni private, riscontrabili nelle carte di Pizzuto. Altrettanto ricco è il côté strettamente biografico. Gli anni trascorsi alla questura di Palermo (1918-1930) coincidono in gran parte con quelli in cui Pizzuto si divide affannosamente tra la famiglia lecita e la clandestina, nata da un “giovanile errore”. Nel quindicennio del Ministero dell’Interno (diretto dal “viceduce” Bocchini) Pizzuto è chiamato a delicati incarichi nella polizia politica e alla vicepresidenza della Polizia Internazionale, che lo portano in giro per vari stati europei (Inghilterra, Francia, Danimarca, Svizzera, Germania, Austria, Romania, Ungheria) e, nel 1933, attraverso gli U.S.A., dove ha modo di incontrare il presidente Roosevelt (e durante il conflitto sarà incaricato di controllare la corrispondenza fra Mussolini e la sorella). Infine, nel dopoguerra, Pizzuto è vicequestore a Trento (De Gasperi resta ammirato dalle periodiche relazioni del suo coltissimo funzionario), questore nella irredenta Bolzano e infine ad Arezzo (la provincia di Fanfani), dove nel dicembre 1949 si congeda dal servizio.
Queste vene alimentano una pratica di scrittura che, tenendo conto delle condizioni non certo favorevoli, accusa poche pause. Dopo la prima Sinfonia Pizzuto allestisce, nel biennio 1927-1928, quella che considera una seconda redazione (ma si tratta di un testo strutturalmente diverso). Seguono Sul ponte di Avignone (1931-1936), Rapin e Rapier (1944-1948), Così (1949- 1952). Per ciascuna di queste opere l’autore tenta le vie della pubblicazione, ricevendone regolari dinieghi (i più brucianti, quelli di Giuseppe Antonio Borgese e di Valentino Bompiani). Le bocciature hanno una conseguenza decisiva. Pizzuto ne deriva un surplus di autocritica, quella diffidenza verso se stesso che produce una vera sindrome da incontentabilità, il divieto di sostare sui risultati raggiunti. Le invarianti di questa ininterrotta progressione, quelle che garantiscono la continuità, sempre rivendicata, dell’opera, sono l’idea “antiunitaria”, il rapporto con i classici e la dimensione autobiografica.
Al rifiuto del racconto naturalista, che pure corrisponde alla temperie della sua giovinezza (si pensi alle rotture operate da Pirandello, Svevo e Tozzi, al frammentismo vociano, al paroliberismo futurista), Pizzuto giunge da un ingresso tutto proprio, autorizzato dalla Weltanschauung del suo maestro. Cosmo Guastella insegnava che la realtà, fatta di percezioni, è discreta, che il divenire si riduce a una moltitudine di stati consecutivi, che il suo flusso è illusorio quanto quello del cinema, dove il movimento è procurato da una successione di singole istantanee. Così come fra i fotogrammi non sussistono legami necessitanti, ma solo quelli forniti dal nostro occhio, allo stesso modo la sostanza della narrazione è costituita dalle sue unità elementari, dalle sue autarchiche monadi, mentre le connessioni fra loro restano consegnate all’arbitrio dell’autore (e all’intuito del lettore che deve ricostituirle). Da questo pensiero eversivo la narrazione pizzutiana prende i suoi caratteri duraturi: il regime di «falsa conseguenzialità» (il diritto cioè di associare fatti eterogenei, anche lontani nello spazio e nel tempo), che la allinea al più ardito sperimentalismo del Novecento, e la tensione gnoseologica, che la conduce sulle orme di Proust, Kafka, Joyce, Musil.
Una funzione originale assume anche l’altro pilastro dei saperi di Pizzuto. La consuetudine con l’universo grecolatino lo spinge da un lato a perseguirne il ne varietur, l’irrevocabile compostezza, ad ambire insomma lo statuto di monumento aere perennius, e dall’altro a utilizzarne i materiali come carburante delle più acrobatiche evoluzioni.
Tutti questi ingredienti si ritrovano nei libri che abbiamo dinanzi. Si riparano bambole e Pagelle non potrebbero essere più distanti. Il primo, ripartito in diciassette sequenze anepigrafe, insegue il destino di Pofi, dall’infanzia palermitana al ritorno, da vecchio, nella città natia, per ricoverarsi in un ospizio. Il secondo presenta quaranta capitoletti autonomi muniti di titolo e senza legami espliciti, in cui i personaggi sono sostituiti da fuggevoli apparizioni senza nome e le storie da segni rapidi, tendenti all’astratto. Ma entrambi adibiscono la medesima libertà costruttiva che ne fa, come dice Contini, un’«antologia di fenomeni», una collezione di eventi paritetici, senza gerarchie e senza sviluppi, un collage di frammenti eterocliti. Per fare solo un esempio, nelle battute iniziali di Si riparano bambole, che muovono dall’infanzia dell’autobiografico Pofi, la figura dell’anziano principe del foro ritrae, per ammissione dello stesso Pizzuto, un suo coetaneo, l’avvocato Giacomo Friscia. Passando al contributo della parte filosofica, basterà osservare che Pagelle è dedicato «a Cosmo Guastella», incentrandosi, come nota Silvia Longhi, sul «divario tra conoscenza umana e mondo» e che un ampio segmento di Si riparano bambole ripercorre l’iniziazione di Pizzuto al milieu della Biblioteca Filosofica (Giuseppe Amato Pojero vi è ribattezzato «dottore Amarena»). Quanto alla presenza dei classici, che in Si riparano bambole si dirama in un reticolo di riferimenti e citazioni (quella, ad esempio, dell’incipit del De Bello Gallico che innesca l’irresistibile gag dei ginnasiali alle prese con la fatidica versione), questa risulta addirittura costitutiva in Pagelle, dove il ricupero di ablativi assoluti, gerundivi, infiniti storici (conseguenza della «sintassi nominale», ossia della rinuncia ai «tempi determinativi del verbo»), e i numerosi neologismi formati su radici greche o latine, portano la lingua di Pizzuto a quella che Denis Ferraris definisce la «impensable résurrection d’une mythique partition grecque». Infine, da un libro all’altro, la materia di Pizzuto rimane, salvo rare eccezioni, autobiografica, deponendo a favore del suo sostanziale realismo. Vincenzo Adragna, il compianto bibliotecario di Erice, esperto di storia locale, mi disse un giorno che le splendide pagine ericine di Si riparano bambole erano anche un prezioso documento sulla vita della sua cittadina agli inizi del secolo scorso. La formazione positivistica di Pizzuto lo vuole narratore scrupoloso, al limite della pedanteria. Egli disegna dal vero. Anche se depistanti, dislocate a capriccio nel tempo e nello spazio, le sue “cellule” si dimostrano quasi sempre autentiche. Due soli esempi. Treno speciale, il terzo episodio di Pagelle, riporta alla luce uno dei convogli che, partendo da Innsbruck, scortavano alte personalità del regime nazista in visita nel nostro Paese. Per la sua confidenza con il tedesco, Pizzuto era spesso incaricato di accogliere e accompagnare nella capitale i funzionari della polizia germanica diretti in Italia. E nell’ottobre del 1942 fu assegnato al treno predisposto per un viaggio di Himmler, ricevendo perfino un encomio per avere risolto con una coraggiosa iniziativa uno spiacevole disguido. In Si riparano bambole l’esilarante episodio dei fratelli Spadazziere (il trio di creatori appesi a una condominiale «tavola di abete») non è affatto inventato. Come ho potuto accertare (dopo una prima supposizione rivelatasi erronea6), il quadretto raffigura i fratelli Mulè e la loro famiglia (il padre Francesco, la madre Carmela Lombardo, gli altri fratelli Diego e Saveria), rendendo una vivida testimonianza che contrasta l’oblio di questi remoti servitori delle muse (originari di Termini Imerese): Francesco Paolo (1870- 1947), allievo di Ugo Antonio Amico, giornalista e poligrafo, autore di liriche, biografie, novelle, dei poemi Terra nativa e La sposa di Efeso, e della tragedia Merope, ricordata nel racconto; Giuseppe (1885-1951), responsabile dei conservatori di Palermo e Roma, direttore d’orchestra e compositore di lavori sinfonici, di commenti musicali alle tragedie classiche e delle opere La baronessa di Carini, Al lupo!, La monacella della fontana (su testi del fratello), Dafni, Liolà, Taormina, La zolfara; Giovanni, che firma spartiti di minore impegno (se ne conservano vari fox-trot, un andatino campestre, una romanza per tenore e soprano, un valzer lento).
«Seduti alla grande tavola di abete, l’uno stendeva tragedie, il secondogenito melodrammi voltandosi a saggiare con una mano i motivi sul pianoforte e Giovanni, ultimo, operette e ballabili. In maniche di camicia il padre vuotava la pipa sul cortile senza lasciare lo sgabello. L’unico non preso dall’arte, l’unico cancelliere aggiunto, passeggiava in lungo ed in largo alle loro spalle. Un gran calamaio centrale alimentava le tre penne, scontrantisi qualche volta e disseminatrici nel tragitto di spruzzatine a stelle ed esclamativi sul legno: si percepiva il loro cozzare alterno col fondo. Questi o quegli ogni tanto, in cerca di idee, si alzava per aggirarsi a mani congiunte sul dorso. Di frequente a non perdere l’ispirazione o manifestandosi essa intollerabile del pur minimo indugio, mentre Giuseppe armeggiava nelle ottave centrali con ritmi, mettiamo, eroici, Giovanni ricorreva ai cantini, dita contratte, abbozzandovi i suoi ùnduetre; allora la tastiera si riduceva a una specie di tavolozza [...]. Sotto l’occhio attento di Pofi, qui Paolo squadernava endecasillabi sciolti senza interruzione, che vena, dirimpetto Giuseppe era intento alla cavalcata, o tortura, e pareva una tarantella. In certi attimi egli mostrava i pugni a quei pentagrammi ingrati, carichi di batraci, scolarette in fuga, orsoline. Con calma, gli diceva il fratello, non preoccuparti di Wagner. Spiritualizza. Attenua. Vedi io: e giù a declamare versi, interrompendosi per ritocchi» (pp. 90-91)
Data recensione: 01/01/2011
Testata Giornalistica: 451
Autore: Antonio Pane