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Un panama che si arrotola e si infila in tasca fa subito Hemingway. Poco importa se la paglia di Firenze non esiste più e le treccioline arrivano dalla Cina, dal Vietnam e dal Madagascar, se ha forgiare i deliziosi cappelli di paglia, culto della fiorenti

Un panama che si arrotola e si infila in tasca fa subito Hemingway. Poco importa se la paglia di Firenze non esiste più e le treccioline arrivano dalla Cina, dal Vietnam e dal Madagascar, se ha forgiare i deliziosi cappelli di paglia, culto della fiorentinità, sono idee raffinate e mani abilissime. Prova ne da il cappellificio Filippo Catarzi di Signa che per celebrare un secolo di attività ha dato alle stampe per i tipi Polistampa, l’elegante volume a cura di Roberto Lunardi e Maria Emirena Tozzi Bellini: Cento anni di creatività e abilità.
L’azienda Catarzi, ovvero quattro generazioni al lavoro chine su manufatti deliziosi, famosi in Europa come chapeaux de paille d’Italia e nel mondo come Leghon hats, simbolo di una produzione che oggi, considerando altre aziende storiche, mette al lavoro nella zona oltre mille addetti.
Il catalogo fa memoria della connotazione signese ricordando le vicende della storica famiglia di pagliaioli, inquadrandole però nel contesto più generale della storia delle manifatture artistiche del bacino imprenditoriale della Piana. Oggi a Casale dei Colli sono in 25 i lavoranti che danno forma ai cappelli, gli uomini alla pressa, le donne rifiniture. Ogni anno producono 800mila pezzi, e non solo di paglia, con un proprio marchio e per conto di grandi case di moda come Max Mara, Cavalli, Zara o Conte of Florence, tenendosi strette commissioni glamour che segnano la storia dell’azienda come quelle dell’Hotel Cipriani di Venezia. Il volume ricco di immagini storiche, con la penna del professor Roberto Lunardi, racconta una storia di impresa che rimanda all’800. A un bracciante, Antonio Catarzi che va in sposo a una giovane trecciaiola, Maria Bertini. Sarà il figlio Olderico nel 1910 ad avviare il piccolo laboratorio ai Colli e farsi conoscere in zona come «pagliaiolo» di professione. Nel frattempo Signa, grazie alla felice combinazione della fertilità dei terreni e della straordinaria operosità dei suoi abitanti cominciò a imporsi come centro propulsore di un’attività che ancora oggi la pone in primo piano nel mondo economico e produttivo. Accettando per puro calcolo che Firenze con la sua fama le usurpasse la tradizione della lavorazione della paglia. Già alla fine dell’800 – racconta Lunardi quando all’opera c’erano 150mila addetti, si convenne di smantellare le coltivazioni. Importare le trecce dall’estero costava molto meno del grano e la questione fu ampiamente dibattuta nelle stanze dei Georgofili. Fu così buttato all’aria il lavoro iniziato da Domenico Michelacci che giunto a Signa nel 1714, impiantò sofisticate coltivazioni di grano, prodotto non più per scopi alimentari, ma per ottenere paglia da intreccio. La storia dei trecciaioli di Signa è ancora nei ricordi di qualche anziano: le donne col grembiule sulle ginocchia riunite a cerchio a intonare canzoni popolari mentre, intente, intrecciavano i diversi tipi di filo: a cinque, a sette, a nove. Al museo della paglia è in mostra la creatività di queste donne il cui patrimonio è custodito dalle ultime ditte che portano avanti il business. Qualcuna, come la famiglia Catarzi, di generazione in generazione. Cento anni da regalare al futuro di chi vorrà tirare il filo ancora, valgono bene un libro e una grande festa nella villa medicea «Castelletti», dove venerdì, farà da star un delizioso cappello realizzato a mano. Un intreccio da capogiro.
Data recensione: 14/07/2010
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Loredana Ficicchia